Karma e Divenire 5/5

𝗞𝗔𝗥𝗠𝗔 𝗘 𝗗𝗜𝗩𝗘𝗡𝗜𝗥𝗘

𝗩. 𝗜𝗟 𝗞𝗔𝗥𝗠𝗔 𝗗𝗔𝗟𝗟𝗔 𝗔 𝗔𝗟𝗟𝗔 𝗭

Il termine sanscrito karma (Pāli: Kamma), deriva dalla radice verbale ‘kṛ’, simile all’italiano ‘cr’, da cui deriva il verbo ‘creare’; tra i significati di karma troviamo: azione, atto (in senso giuridico, attività, lavoro, pratica. Tuttavia, nell’ambito specifico del Buddha-Dharma, questo termine assume il significato di azione intenzionale (cetanā). Il Nibbedhikasutta (Anguttara Nikāya 3.34) riassume in cinque punti la peculiare visione del Buddha sul karma:

1. «Cos’è, o monaci, il karma ? l’intenzione io definisco Karma. Essendo sorta un’intenzione, si agisce tramite il corpo, la parola e la mente.»

2.«E qual è l’origine del karma? Il contatto (phassa) è l’origine del karma.»

3. «E cos’è la varietà del karma? Vi è, o monaci, un karma [i cui risultati] sono sperimentati nel reame infernale, un karma [i cui risultati] sono sperimentati nel reame animale, un karma [i cui risultati] sono sperimentati nel reame degli spiriti famelici, un karma [i cui risultati] sono sperimentati nel reame umano, un karma [i cui risultati] sono sperimentati nel reame divino. Questo, monaci, è la varietà del Karma.»

4. «E qual è il risultato del karma? Monaci, io affermo che il risultato del karma è triplice: in questa stessa vita, nella successiva, o in qualche altra esistenza.»

5. «E cos’è la cessazione del Karma? Cessando il contatto, cessa il karma; ed è proprio questo Nobile Ottuplice Sentiero la pratica che conduce alla cessazione del karma, ovvero: giusta visione, giusta intenzione, giusta parola, giusta azione, giusto stile di vita, giusta applicazione, giusta consapevolezza e giusto samādhi.»

***

I punti 1 e 2 mostrano genesi condizionata del karma o intenzione, in qiuanto risultato dell’interazione fra le facoltà interne, gli oggetti esterni e la coscienza sensoriale. Ad esempio, la coscienza visiva (chakkhu-viññāna ) nasce per via dell’interazione fra gli occhi (facoltà interna) e le immagini (l’oggetto esterno); la concomitanza di questi tre è il contatto visivo (phassa), anche chiamato rūpasañcetanā (intenzione connessa ad un immagine). Per via di ciò, vengono compiute azioni, mentali, fisiche e verbali. I punti 3 e 4 si riferiscono alle forme, al luogo e al tempo in cui i risultati del karma si manifesteranno. I cinque reami summenzionati non devono essere necessariamente intesi in maniera letterale, come luoghi fisici, ma bensì come condizioni esistenziali (bhava). Il punto 4 afferma implicitamente il legame fra la dottrina del karma e quella della ri-esistenza. (punabbhava). Tuttavia, gli effetti delle azioni possono essere sperimentati anche in questa stessa vita. In base a questa descrizione, possiamo intuire che il karma non è un mero agire ma bensì quell’agire responsabile del nostro peregrinare nel samsāra. Infine, il punto 5 indica nel Nobile Sentiero la metodologia che conduce alla cessazione del karma e della sofferenza che il suo perpetuarsi comporta. Il karma malsano, causa di sofferenza, è generato sulla base delle tre radici non salutari: bramosia, avversione e ignoranza; similmente, l’azione virtuosa è determinata da intenzioni nate da stati mentali virtuosi come il non attaccamento, la benevolenza o la comprensione:

«Monaci, vi sono tre cause per il prodursi del Kamma: Quali tre? La bramosia, l’avversione e l’ignoranza sono causa per il prodursi del kamma.»

𝗙𝗿𝗮 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼 𝗲 𝗽𝗿𝗲𝘀𝗲𝗻𝘁𝗲

«Cos’è, o monaci, il vecchio karma? L’occhio, o monaci, è il vecchio karma, costruito sulla base delle intenzioni, di cui è possibile fare esperienza; la lingua è il vecchio karma, costruito sulla base delle intenzioni, di cui possibile fare esperienza […] l’intelletto è il vecchio karma, costruito sulla base delle intenzioni, di cui possibile fare esperienza. E cos’è, o monaci, il Karma nuovo? Quelle azione che, o monaci, vengono compiute nel presente attraverso il corpo, la parola e la mente, questo, o monaci, è detto essere il Karma nuovo.»

(Kammanirodhasutta, Navapurāṇa­vagga, SN 35.146)

***

Questo sutta definisce la nostra esistenza nei termini del manifestarsi delle sedi dei sensi sulla base del karma compiuto in precedenza, detto in gergo ‘vecchio karma’ (purāṇakamma); allo stesso tempo, con nuovo karma sono da intendersi quelle azioni compiute in risposta agli stimoli sensuali percepiti tramite quegli stessi organi sensoriali, determinanti a loro volta la nostra condizione presente e futura. Con vecchio karma si intende il risultato del karma precedentemente compiuto, mentre con nuovo karma sono da intendersi la attività generanti risultati nel futuro, oltreché nel presente. In questo modo, viene a prodursi un circolo vizioso in cui le nostre azioni vanno a determinare il manifestarsi di una nuova individualità provvista delle sei sedi dei sensi, attraverso le quali si sperimentano quegli stimoli sensoriali in risposta ai quali vengono compiute nuove azioni determinanti a loro volta una nuova individualità …

Kamma e Vipāka

Inoltre, il Pathamabhavasutta paragona il Karma a un campo (khetta), a indicare che le azioni compiute determinano la qualità dell’esistenza. Il Kamma è il campo d’azione pressoché infinito per l’individuo spinto dalla bramosia; sulla base delle azioni compiute, si sperimenterà un risultato (vipāka) corrispondente; così, il ridivenire o rinascita che dir si voglia è il vipāka delle azioni alimentate dall’ignoranza e dalla bramosia, il quale potrà manifestarsi in uno dei seguenti tre momenti: nel presente (diṭṭheva dhamma), in una successiva rinascita (upapajja), oppure in un momento successivo (apara).

È bene precisare che l’idea della retribuzione degli atti eticamente sensibili non significa che, ad esempio, chi commette un omicidio verrà a sua volta ucciso, ma che l’assassino subirà tutte le conseguenze del caso, come ad esempio l’arresto, il dover affrontare il processo, la condanna e l’emarginazione sociale.

𝗞𝗮𝗿𝗺𝗮 𝗿𝗶𝗱𝗲𝗳𝗶𝗻𝗶𝘁𝗼

Nell’India pre-buddista, l’idea di karma era riferita a quegli atti rituali, quali i sacrifici e le cerimonie di offerta (pūjā), finalizzate a produrre un risultato favorevole all’officiante, grazie al potere delle divinità propiziate. In seguito, il concetto di Karma assunse il significato più ampio di legge di causa ed effetto applicata a tutte le azioni, rituali e non, generanti un risultato, positivo o negativo, in questa vita o nelle prossime. Come già accennato, il Buddha rivoluzionò il concetto di Karma ridefinendolo nei termini di cetanā, intenzione o scelta, che una volta messe in atto daranno forma alla nostra esistenza (bhava). Questa approccio rivoluzionario è mirabilmente espresso nel seguente dialogo fra la monaca Punnikā e un bramino impegnato nelle pratiche rituali per l’accumulazione del kamma positivo:

[Punnikā]: «Chi insegna questo, ignorante agli ignoranti — ‘Ci si libera, attraverso le abluzioni con acqua, del cattivo karma?’ Allora, rinasceranno nei mondi celesti: rane, tartarughe, serpenti, coccodrilli e tutte le creature che vivono nell’acqua. Macellai, pescatori, cacciatori, ladri, assassini, potrebbero, con le abluzioni con acqua, liberarsi dal cattivo karma. Se questi fiumi portassero via il cattivo karma compiuto nel passato, porterebbero via anche i meriti, e quindi saremmo completamente abbandonati a noi stessi. […] Se hai paura del dolore, se non ti piace il dolore, allora non compiere alcun karma nocivo, sia in segreto che in pubblico. Ma se compirai un karma nocivo, non sarai libero dal dolore, quando lascerai questa vita”.

(Therīgāthā, Kuddaka Nikāya 12.1)

In merito alla questione dell’intenzione o scelta vi è il problema di cosa in realtà determini l’intenzione. Cosa decide se debba essere questa o quell’altra intenzione a dover essere attuata? Secondo R.G. De S. Wettimunny, «La risposta a questa domanda è di grande importanza, in quanto essa permetterebbe all’uomo comune di capire che le proprie idee circa le sue stesse azioni siano inconsistenti e non così nobili e disinteressate come egli sovente immagina che siano. Ciò che determina la scelta è la pura e semplice percezione del piacere o del dolore. Di tutte le intenzioni presenti immaginabili, quella effettivamente attuata sarà unicamente quella che la persona pensa possa garantirgli il più alto livello di piacere nel presente o nell’immediato futuro. Tutte le attività intenzionali dell’uomo comune, da quelle maggiormente ponderate a quelle sommamente sconsiderate, sono tutte determinate dalla previsione del piacere o del dolore. Anche ciò che uno definisce pomposamente il proprio ‘dovere’, è determinato da questo meccanismo. Se si compie il proprio dovere è solamente perché qualora si agisse negligentemente, si sarebbe destinati a sperimentare una qualche forma di dolore. Perfino quando si decide di rinunciare a un piacere immediato, ci si comporta così in vista di ciò che uno immagina possa essere un piacere più grande in futuro Quando vi è un’azione, in essa è sempre presente un certo livello di riflessione; a livello più basilare, questa facoltà della riflessione è definibile come ‘tendenza’ o ‘inclinazione’; a questo livello, un’azione è irrevocabile, e tuttavia essa può essere modificata o mitigata tramite un’attività riflessiva di livello più alto, ovvero prendendo coscienza dell’azione in cui mi sono impegnato per via delle mie inclinazioni. Ma la scelta può anche essere compiuta deliberatamente; in questo caso essa è revocabile. L’idea, molto comune e conveniente, che le nostre tendenze siano dei meri impulsi ai quali possiamo solamente sottometterci passivamente è un errore; lungi dall’essere un impulso che deve essere subito passivamente, una tendenza è una ricerca attiva finalizzata a determinare una situazione ancora indeterminata. Di notte, ho la tendenza a dormire, non di correre; la mia situazione è perciò gravida della possibilità di addormentarmi, e l’intenzione di dormire è quindi immediata, involontaria. Ma per mettermi a correre dovrei volontariamente decidere di correre, e compiere uno sforzo deliberato per correre. Quando la psicologia definisce le tendenze un dato di fatto, essa priva le tendenze stesse del loro carattere essenziale, la loro natura appetitiva, e di conseguenza, della loro modificabilità».

𝗡𝗼𝗻 𝗦𝗼𝗹𝗼 𝗞𝗮𝗿𝗺𝗮

Fra le molte opinioni distorte riguardanti il concetto di karma, vi è quella secondo la quale ogni esperienza umana sia determinata dal Karma. Questa idea distorta è supportata da letture incaute e parziali di affermazioni contenute in alcuni discorsi come questa:

«Maestro Gotama, qual è la causa e la condizione per cui gli esseri umani sono percepiti come inferiori o superiori? Perché alcune persone hanno breve vita mentre altri hanno una lunga vita, perché vi sono persone malate e altre sane, brutte o belle, non influenti e influenti, povere e ricche, di basso livello e di alto livello, stupide e sagge. Qual è la causa e la condizione, per cui gli esseri umani sono visti come inferiori o superiori?»

«Studente, gli esseri sono padroni delle loro azioni, eredi delle loro azioni; hanno origine dalle loro azioni, sono legati alle loro azioni, hanno le loro azioni come rifugio. È l’azione il fattore che divide gli esseri in inferiori e superiori».

(Cūḷakammavibhaṅgasutta, MN136)

Tuttavia, ciò non significa che il karma sia l’unico fattore determinante la buona e cattiva sorte degli esseri; Il Sīvakasutta offre una chiara indicazione su quale fosse la visione del Buddha in merito a questa opinione:

«Sīvaka, che alcune esperienze sorgano come risultato dell’umore bile…dell’umore flemma…dell’umore vento…o per la combinazione di queste tre … o per il cambio di stagione … per la mancanza di cura di sé…o per attacchi dall’esterno … o come risultato delle azioni, è una cosa che ognuno può osservare da sé, e ciò è considerato come vero nel mondo. Ora, quando quegli asceti e quei bramini predicano tale dottrina e punto di vista quale: ‘Qualunque cosa un individuo sperimenti come piacevole, doloroso o neutro, tutto ciò è determinato dal [karma]precedente’, essi eccedono in ciò che è conoscibile da sé stessi travalicando ciò che è considerato vero nel mondo. Pertanto, io dico quegli asceti e bramini sono in errore.»

(SN 36.21)

Gautama rifiutò il determinismo karmico assoluto affermando che una simile credenza non può che condurre ad un atteggiamento improntato al fatalismo e perciò alla passività:

«Coloro i quali ripiegano sulla [teoria delle] azioni passate come la vera essenza [delle cose], non nutrono alcun interesse verso ciò che deve essere fatto o che non deve essere fatto, né si esercitano in tale senso. Non riconoscendo come vero e valido ciò che dovrebbe essere fatto e ciò che non dovrebbe essere fatto, essi vivono distrattamente e senza riguardo, e non possono essere legittimamente chiamati ‘asceti’.»

(Titthāyatanasutta, Aṅguttara Nikāya 37)

𝗟𝗲 𝟱 𝗹𝗲𝗴𝗴𝗶 𝗻𝗮𝘁𝘂𝗿𝗮𝗹𝗶

Come si è detto, nell’ ambito del Buddha-Dharma, con Karma si intende primariamente un’azione intenzionale (cetanā); se non c’è intenzionalità né pianificazione, non si può parlare di karma. Come spiegare allora le ingiustizie sulla base dalla teoria della retribuzione karmica e delle rinascite? L’Atthasalini elenca 5 leggi (niyama) di cui solo l’ultima è la legge del karma:

1.Legge ambientale (utu-niyāma);

2. Legge biologica (bijja-niyāma);

3.Legge psicologica (citta-niyāma);

4. Legge fenomenologica (dhamma-niyāma);

5. Legge del karma (kamma-niyāma).

Il complesso e insondabile intreccio di queste cinque leggi determina le esperienze, positive e non, a cui tutti gli esseri sono naturalmente soggetti. In particolare, per via del Dhamma-nyama (legge dell’interdipendenza), gli esseri tramite l’interazione con l’ambiente circostante, producono karma e ne ricevono gli effetti, benefici e nocivi. In questo modo, le cinque leggi concorrono a plasmare il nostro essere. Tale processo è definito dall’Abhidhamma ‘kammabhava’, karma dell’esistere. Inoltre il Mahākammavibhaṅgasutta (MN136) spiega l’apparente contraddizione fra il comportamento individuale e i risultati sperimentati:

«C’è la persona che si è astenuta dall’uccidere gli esseri viventi … e ha adottato la giusta visione. Al momento della dissoluzione del corpo, dopo la morte, riappare negli stati di privazione, in una destinazione infelice, nella perdizione, nell’inferno. [forse] il kamma malsano che ha prodotto la sua sofferenza è stato compiuto in precedenza[allo sviluppo della giusta visione], o il kamma malsano che ha prodotto la sua sofferenza è stato compiuto in seguito, o la visione errata è stata adottata e completata da lui al momento della morte. Per questo motivo, alla dissoluzione del corpo, dopo la morte, egli riappare negli stati di privazione, in una destinazione infelice, nella perdizione, nell’inferno. Ma poiché si è astenuto dall’uccidere gli esseri viventi in questa vita … e ha adottato la giusta visione, ne sperimenterà il risultato qui e ora, o nella sua prossima nascita, o in qualche esistenza successiva».

𝗦𝘂𝗶 𝗹𝗶𝗺𝗶𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗽𝗲𝗻𝘀𝗶𝗲𝗿𝗼 𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲

L’Acinteyyasutta (AN 4.77) mette in guardia dal formulare congetture sulla profondità del funzionamento della legge naturale del karma:

«Ci sono quattro cose insondabili col pensiero (ovvero: comprensibili) le quali porterebbero alla follia e all’angoscia chiunque provasse a sondarle con il pensiero. Quali sono le quattro? Il dominio di un Buddha, Il raggio d’azione di una persona nello stato di jhana, I risultati del kamma e l’origine del mondo.»

𝗞𝗮𝗿𝗺𝗮 𝗲 𝗠𝗼𝗿𝘁𝗲 𝗡𝗮𝘁𝘂𝗿𝗮𝗹𝗲

In un dibattito fra i Theravāda e gli Andhaka* sulla natura del karma contenuta nel Libro delle Controversie, è esposta la teoria controversa secondo cui vecchiaia e morte siano il risultato (vipāka) del karma; questa proposizione è rifiutata dai Theravāda e sostenuta dai loro oppositori. Secondo il commentario al Kathāvatthu:

«Per via del fatto che alcune azioni conducano a quel deterioramento detto ‘invecchiamento’ e a quella decurtazione della vita chiamata ‘morte’, alcuni, come gli Andhaka sono dell’opinione che invecchiamento e morte siano il risultato (vipāka) di tali azioni. Ora, esiste, tra l’azione moralmente negativa e il decadimento materiale quella relazione conosciuta come karma, ma la causa morale e l’effetto materiale sono di generi differenti. Perciò, il secondo (l’effetto), non è un risultato soggettivo (Vipāka). Esso differisce da ogni altro stato mentale: contatto, sensazione, eccetera – in quanto prodotti del karma. Inoltre, esso è in parte dovuto al fattore ambientale, stagionale (utu-niyāma).»

𝗥𝗲𝘀𝗽𝗼𝗻𝘀𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮̀ 𝗣𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲 𝗲 𝗞𝗮𝗿𝗺𝗮 𝗖𝗼𝗻𝗱𝗶𝘃𝗶𝘀𝗼

in merito al problema della responsabilità individuale e dell’idea di «karma collettivo», il Professor Richard Gombrich scrive:

«Il nostro modo normale di intendere la causalità, basato sul buon senso, la vede applicarsi nel tempo, con la causa che precede l’effetto. Metaforicamente, possiamo concepire tale causalità come verticale; è così anche se ci sono molte cause e / o effetti. Tuttavia, nel buddhismo nacque un’interpretazione della causalità secondo cui le cose sarebbero causate anche letteralmente, per così dire, da altre che avvengono allo stesso tempo – o persino in un tempo futuro. Tale interpretazione è particolarmente diffusa nel buddhismo estremo-orientale: la scuola Hua Yen sostiene che tutti i fenomeni sono interconnessi. Non mi riesce di trovare alcuna traccia di questa dottrina nel Canone Pāli. Ciò che il Buddha insegnò è che tutti i fenomeni che sperimentiamo – o meglio, tutte le nostre esperienze eccetto l’illuminazione – sono condizionati causalmente. In quel senso particolare non sono fenomeni indipendenti, ossia non possono avvenire senza un contesto. Forse ci si può spingere un poco oltre, e dire che senza un contesto è impossibile accertare l’esatto significato di un fenomeno. Ma non ne consegue affatto che tutti i fenomeni esercitano una vicendevole influenza causale, anzi, tale interpretazione sovvertirebbe la dottrina del karma esposta dal Buddha. Tutta la ragion d’essere del karma, come ho sottolineato fin dall’inizio, è che esso insegna che tutti gli individui sono responsabili di se stessi. Nelle parole del Buddha, noi siamo ”eredi delle nostre azioni”. Se fossimo eredi delle azioni altrui, l’intero edificio morale crollerebbe».

***

Secondo la tradizione Theravāda, non esiste alcun karma collettivo, in quanto il karma è per definizione una scelta individuale; tuttavia, il commento al versetto 127 del Dhammapada sembra suggerire un’ipotesi differente:

«Non in cielo, né in mezzo all’oceano, né in una grotta di montagna, si trova quel luogo sulla terra dove dimorando si può sfuggire (alle conseguenze) del proprio agire malsano.»

(Dhammapada 127)

Secondo il commentario tradizionale a questo verso, tre gruppi di monaci si misero in viaggio per recarsi dal Buddha. Lungo la strada il primo gruppo vide un corvo che veniva bruciato vivo. Il secondo gruppo vide una donna annegare in mezzo all’oceano. Il terzo vide sette monaci imprigionati in una grotta per sette giorni. I monaci vollero sapere dal Buddha le ragioni di quegli eventi. Il Buddha raccontò che il corvo, in qualità di contadino in una vita precedente, aveva bruciato vivo un bue troppo pigro; la donna aveva soffocato un cane; i monaci, come pastori in una vita precedente, avevano imprigionato un’iguana in un formicaio per sette giorni. Il Buddha aggiunse che nessuno è esente dalle conseguenze delle proprie azioni passate.

***

È bene precisare che quando si parla di «karma collettivo», in realtà ci si sta riferendo agli effetti delle azioni del vecchio karma. Questo utilizzo disinvolto del termine, che tanta confusione ha creato e continua a crearne, era già in voga ai tempi del Buddha e forse anche prima. Sebbene, per le ragioni citate più sopra, parlare di karma collettivo suoni tanto come una contraddizione in termini (come potrebbe una scelta essere individuale e collettiva allo stesso tempo?) più realisticamente si potrebbe parlare di «karma condiviso»: un’esperienza simile, condivisa da più persone coinvolte in un medesimo accadimento determinato da scelte condivise. Nel Canone Pāli vi sono alcuni esempi di «karma parzialmente condiviso». Prendiamo ad esempio le vicende personali dei primi cinque discepoli di Gautama : tutti e cinque decisero, di comune accordo di seguire Il Bodhisatta Siddhārtha nella ricerca dell’illuminazione; tutti e cinque decisero di abbandonarlo quando questo scelse di abbandonare la via della mortificazione; tutti e cinque furono in principio intenzionati a non dare retta al loro ex compagno di ascesi, ormai divenuto un Buddha e tutti insieme cambiarono idea una volta persuasi dello stesso Buddha della sua sincerità. E tuttavia, ognuno di loro realizzò l’entrata nella corrente del risveglio con modalità e tempistiche differenti: a Koṇḍañña bastò una sola esposizione del Dhamma, mentre agli altri quattro furono necessari rispettivamente due, tre, quattro e cinque. giorni di insegnamenti. Un altro esempio riguarda le tragiche vicende del Clan dei Sakya i cui membri furono in larga misura massacrati dalle truppe del Generale Vidudaba, rei di aver ingannato il padre di quest’ultimo, facendo passare per principessa una schiava inviatogli come sposa.

Nell’ Abhidharmakośabhāsya, un testo della scuola Sarvastivāda, Vasubandhu scrive:

«Quando molte persone si uniscono con l’intenzione di uccidere, sia in guerra, sia nella caccia, sia nel banditismo, chi è colpevole di omicidio, se uno solo di loro uccide? Poiché i soldati, ecc. concorrono alla realizzazione dello stesso effetto, tutti sono colpevoli come colui che uccide. Avendo un obiettivo comune, tutti sono colpevoli proprio come colui che tra loro uccide, perché tutti si incitano reciprocamente, non attraverso la parola, ma per il fatto stesso di essere uniti insieme per uccidere. Ma è colpevole anche chi è stato costretto con la forza a unirsi all’esercito? Evidentemente sì, a meno che non abbia preso la decisione: ‘Neanche per salvare la mia vita, ucciderò un essere vivente’.»

*Un gruppo distaccatosi dal Theravāda, dal quale si produssero altre sotto scuole come il Pubbaseliya, l’Aparaseliya, il Rajagirika e il Siddhatthika.

2 pensieri riguardo “Karma e Divenire 5/5

Aggiungi il tuo

Lascia un commento

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑