Karma e Divenire, 3/5

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III. Criticità dell’interpretazione tradizionale

Tutte le scuole buddhiste sorte dopo la morte del fondatore affermano che effettivamente vi sia qualcosa che rinasce, in un modo o nell’altro; tuttavia, l’idea della rinascita letteralmente intesa crea notevoli problemi di logicità: se non vi è un Ātman, allora cosa rinasce? In generale, i commentari spiegano la rinascita sulla base di una interpretazione letterale della dottrina dei dodici anelli dell’interdipendenza secondo la essi si svilupperebbero, nella loro interezza, nell’arco di tre vite; ma se prendiamo in esame le parole del Buddha su tale argomento, noteremo che egli non disse mai nulla di simile. Inoltre, se la coscienza dipende dal corpo e viceversa, come potrebbe quest’ultima, al momento della morte, separarsi dal corpo dalla quale dipende, muoversi attraverso lo spazio e introdursi nell’embrione appena formatosi? Se il corpo (rūpa) è un elemento imprescindibile del processo di divenire, a quale corpo si riferiva esattamente il Buddha, dato che è evidente a tutti che il corpo materiale verrà totalmente distrutto con il sopraggiungere della morte?

Letteralismo e allegoria

Come accadde anche per altre scuole di pensiero, l’insegnamento del Buddha è stato interpretato in modalità differenti: le principali modalità esegetiche sono quella letterale e quella metaforica; il Buddha stesso affermò che alcuni suoi discorsi devono essere intesi alla lettera, mentre altri necessitano di essere interpretati:

«Monaci, due tipi di persone dileggiano il Tathāgata: quali due? chiunque esponga un discorso il cui significato necessita di essere interpretato come se fosse determinato/esplicito, e chiunque esponga il significato di un discorso il cui senso è determinato/esplicito come necessitante di essere interpretato.»

-AN, 2.24.

Inoltre, nell’Araṇavibhaṅgasutta (MN 139) il Buddha invita a considerare il carattere relativo e funzionale di una parola o espressione linguistica, evitando di cadere in inutili discussioni; similmente, nell’Alagaddūpamasutta, egli criticò l’atteggiamento di quanti si afferrano al significato letterale dell’insegnamento senza coglierne il valore pratico, invitando i suoi allievi a considerare il Dharma alla stregua di una zattera il cui solo scopo è aiutarci ad attraversare il tumultuoso mare in tempesta del samsāra. Lo stesso Buddhaghosa impiegò entrambe le modalità nel cercare di delucidare il significato di alcuni fra gli insegnamenti buddistici più complessi. La grande difficoltà degli esegeti, antichi e moderni, è stata di cogliere il significato recondito e le intenzioni dietro le parole del Buddha, il quale criticò fermamente l’atteggiamento di quanti si attaccano in maniera capziosa alle parole a scapito del loro significato.  A tal proposito, Richard Gombrich afferma:

«L’uso di metafore da parte del Buddha è connesso a quella che divenne nota come la sua «abilità nell’impiego dei mezzi». Nel Mahāyāna, l’abilità nell’impiego dei mezzi» (S:upayakausalya) divenne un termine tecnico. Esso non compare nei testi Pāli più antichi; ma ciò che designa si trova dappertutto. L’espressione si riferisce alla maestria del Buddha come comunicatore. Questa, a sua volta, è dimostrata dall’abilità del Buddha nell’adattare quanto dice ai suoi ascoltatori, ai loro pregiudizi, alle loro aspettative e capacità.[…] La predicazione documentata nei sutta, i testi che contengono i sermoni e i discorsi del Buddha, ha principalmente la forma di quelli che in pali sono chiamati ‘pariyāya.’ Letteralmente la parola significa «percorso intorno» e quindi «percorso indiretto», ma si riferisce a un «modo di presentare le cose». La traduzione «circonlocuzione» non è adeguata, perché suggerisce verbosità o evasività. Pariyāya si riferisce alla metafora, alla parabola, a qualunque uso verbale non sia da intendersi letteralmente. Un testo esposto con «pariyāya» viene messo in contrapposizione con uno esposto senza, in altre parole con un testo che va inteso letteralmente. Nei canoni antichi, sono i testi dell’Abhidharma a essere «senza pariyāya», e a sostenere quindi di esporre in maniera letterale quanto il Buddha aveva voluto dire. Che cosa significa per noi? Il primo compito di un interprete moderno come me è presentare nella nostra lingua il senso letterale di ciò che il Buddha ha inteso dire. É probabile che la soppressione dell’impiego figurato della lingua che pervade e ravviva i suoi discorsi li renda meno vivaci e interessanti; inoltre, è sempre discutibile in che misura ciò che è espresso con una metafora sia comunicabile dall’equivalente letterale, in particolare quando l’argomento è di natura religiosa. Naturalmente posso provare a introdurre metafore mie, ma, a meno che io sia molto attento a spiegare quel che sto facendo, c’è il rischio che distorca il messaggio, soprattutto perché il nostro mondo è assai lontano da quello dell’India antica. È meglio che mi attenga al compito di decodificare quello che il Buddha ha detto, riconoscendo quando lui parla in modo figurato, e magari anche comprendendo perché lo fa. Ma limitarsi a ignorare le metafore equivale a perdere una parte essenziale del significato.»

E ancora:

«Sembra che il Buddha avesse una viva consapevolezza dei pericoli del letteralismo. Un breve testo, AN II, 135, [7] classifica le persone che ascoltano i suoi insegnamenti in quattro tipi; i termini sono spiegati in Puggala-paññatti IV, 5. Come di consueto, l’elenco è gerarchico: il tipo migliore viene elencato per primo. Il primo tipo (ugghatita-ññu) comprende l’insegnamento non appena viene pronunciato; il secondo (vipacita-ññu) comprende dopo una riflessione matura; Il terzo (neyya) è “guidabile”: lo capisce quando ha lavorato, riflettuto e coltivato amici saggi. Il quarto è pada-parama, “che mette le parole al primo posto”; è definito come colui che pur sentendo molto, predicando molto, ricordando molto e recitando molto, non arriva in questa vita a comprendere l’insegnamento. Difficilmente si potrebbe chiedere una più chiara condanna del letteralismo. Io qui mi limito a sottolineare che il Buddhismo fornisce gli strumenti migliori per la sua esegesi. C’è infatti un testo molto famoso nel Canone Pali in cui il Buddha critica il letteralismo. Ma io ci vedo una grande ironia, perché le parole del testo sono state interpretate in modo troppo letterale, così che non se ne è colto il senso. Mi riferisco alla similitudine della zattera nell’Alagaddupama Sutta (MN sutta 22), il sermone con la similitudine del serpente d’acqua. »

Linguaggio ordinario e linguaggio del Dhamma

Per Buddhadāsa Bhikkhu la differenza fra linguaggio ordinario e linguaggio del Dharma è di estrema importanza nel cercare di decodificare il pensiero del Buddha storico.

«Il linguaggio del Dhamma differisce radicalmente da quello ordinario. Tenetelo ben presente, si tratta di due modi di esprimersi distinti. Il linguaggio ordinario si applica a cose mondane ed è usato da chi non conosce il Dhamma. Il linguaggio del Dhamma è parlato da coloro che hanno raggiunto una visione profonda della verità, del Dhamma. Essi parlano della loro esperienza vissuta, e così che è nato il linguaggio del Dhamma […] Un fatto profondo in questa materia è che, nel difficile compito di far conoscere il suo insegnamento, il Buddha dovette usare due linguaggi contemporaneamente. Egli parlò nel linguaggio della verità relativa per insegnare la morale a persone ancora confuse dall’idea dell’eternalismo, a coloro che sentono di essere un sé, di possedere le cose. Le persone che sentono così finiscono per aggrapparsi abitualmente a queste idee. Ma il Buddha parlò anche nel linguaggio della verità ultima per insegnare a coloro che avevano solo un po’ di polvere negli occhi, affinché potessero giungere alla comprensione della realtà assoluta (paramattha-dhamma). L’insegnamento della realtà assoluta è stato progettato per liberare le persone dalla loro teoria dell’eternalismo, a lungo sostenuta e amata. È così che esistono questi due tipi di linguaggio.»

***

Da una prospettiva storica, con il passare del tempo e il diffondersi del Buddhismo su vasta scala in paesi lontani dalla terra d’origine, vennero persi di vista sia il contesto sociale originario entro il quale avvenne la predicazione del Buddha, sia il significato (e di conseguenza le implicazioni di carattere etico e pratico) della terminologia impiegata dal maestro nell’esporre il Dhamma. Il Buddha era solito utilizzare la terminologia dei propri interlocutori, dandole però un nuovo significato in accordo al proprio Dharma. A tale proposito, T.W. Rhys Davids, nella sua introduzione alla traduzione del Dīgha Nikāya afferma:

«Nel discutere di sacrifici con un sacerdote dedito ai sacrifici rituali, di “unione con Dio” con un aderente a tale teologia, della superiorità della casta sacerdotale con un bramino arrogante convinto di ciò, di visione mistiche con un fedele seguace di tali credenze o di anima con una persona convinta dell’esistenza dell’anima, il metodo seguito era sempre lo stesso: Gotama si immedesimava il più possibile con la posizione mentale dell’interlocutore, evitando qualsiasi attacco alle convinzioni sostenute con passione da questi; egli accettava, come punto di partenza della propria esposizione, la desiderabilità dell’attività o della condizione ambita dall’interlocutore, fosse questa l’unione con Dio, (come nel Tevijja sutta), i sacrifici (Kūṭadantasutta), lo status sociale (Ambaṭṭhasutta), le visioni celestiali (come nel Mahālisutta), o la credenza nell’anima (Poṭṭhapāda). Egli adottava perfino la stessa fraseologia dei suoi interlocutori, e quindi, in parte infondendo un nuovo e più alto (dal punto di vista buddhista) significato in tali parole, in parte facendo ricorso ad una concezione etica comune, egli riusciva a portare i suoi oppositori alle proprie posizioni. In tale metodo da lui adottato vi erano sia un senso di rispetto che di dignità, oltreché una non piccola abilità dialettica, ed una grande padronanza dei concetti etici implicati era certamente necessaria al fine di produrre il risultato desiderato. Comunque sia, il metodo seguito in tutti questi dialoghi presenta uno svantaggio: accogliendo la posizione dei suoi avversari, adottandone il linguaggio, i redattori dei sutta ci impongono – al fine di comprendere ciò che essi ci presentano come la visione di Gotama- di leggere in profondità fra e righe del discorso; L’argumentum ad hominem non può essere messa sullo stesso piano dell’affermazione di un’opinione espressa senza alcun riferimento ad una persona o contesto specifico.»

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