Commentario al Bāhiya Sutta

Il Bāhiya Sutta con il commento tratto dal Paramatthadīpanī (Illuminatore del significato ultimo) di Dhammapala (V sec. d.C.) ( estratto).

Tradotto in proprio. È consentita la riproduzione previa citazione della fonte.

1. Il testo radice:

Così ho udito — in un certa occasione il Beato dimorava a Sāvatthī, presso il Bosco Jeta,  all’Eremo di Anāthapiṇḍika. In quel tempo Bāhiya Dārucīriya («dalla veste di corteccia») si trovava a Suppāraka, sulla riva dell’oceano, onorato, venerato, riverito, omaggiato e stimato. Ed egli otteneva vesti, cibo, alloggi, medicine e requisiti in caso di malattia. Quindi, mentre sedeva in solitudine, nella mente di Bāhiya Dārucīriya sorse questa riflessione: « Di quelli che in questo mondo sono Arahant o che hanno realizzato il sentiero che conduce allo stato di Arahant, io sono uno di loro». E una certa dea, la quale era stata in precedenza sua consanguinea, avendo intuito i pensieri di Bāhiya Dārucīriya, mossa da compassione e desiderandone il bene, si recò da lui, e avvicinatolo, gli disse: «Tu, o Bāhiya, non sei un arahant e non hai nemmeno realizzato il sentiero che conduce allo stato di arahant. La tua pratica non conduce allo stato di arahant o alla realizzazione del sentiero che conduce allo stato di arahant».

«Ma allora, chi in questo mondo con i suoi dei è un arahant o ha realizzato il sentiero che conduce allo stato di arahant?»

«Vi è, o Bāhiya, nelle regioni del settentrione, una città di nome Sāvatthī; là ora vive il Beato, un arahant pienamente risvegliato. Quel Beato, o Bāhiya, è un arahant il quale insegna il Dhamma conducente allo stato di arahant ».

Quindi, Bāhiya Dārucīriya, infervorato da quella dea, dipartì seduta stante da Suppāraka, e fermandosi una sola notte [in ciascuna località], giunse all’Eremo di Anāthapiṇḍika, al Bosco Jeta di Sāvatthī. A quel tempo, molti monaci camminavano all’aria aperta. Così Bāhiya Dārucīriya si avvicinò a quei monaci e disse loro: «Venerabili, dove si trova ora il Sublime, l’arahant pienamente risvegliato? Desidererei vedere un tale Beato, arahant  pienamente risvegliato».

« Il Beato, o Bāhiya, si è recato nelle zone abitate per la questua».

Quindi, Bāhiya Dārucīriya, lasciò velocemente il Jetavanā ed entrò in Sāvatthī, dove vide il Beato intento alla questua: egli era sicuro di sé, ispirante fiducia, con i sensi domi, la mente pacifica, avendo ottenuto la realizzazione più alta dell’autocontrollo e della serenità (samatha), simile ad un possente elefante domo nei sensi, disciplinato e pacifico. Vistolo, si diresse verso di lui, e dopo averlo avvicinato e omaggiato inchinando il capo ai sui piedi, disse lui: «Signore, che il Beato mi istruisca nel Dhamma; essendo stato istruito dal Beato, ciò sarà per me di beneficio e felicità per lungo tempo». Essendo stato detto ciò, il Beato disse a Bāhiya Dārucīriya: «Questo non è il momento appropriato, Bāhiya, ci troviamo in mezzo alle case per la questua». Per la seconda volta Bāhiya Dārucīriya disse al Beato: «È difficile, Signore, conoscere i pericoli che incombono sulla vita del Beato o sulla mia! Signore, che il Beato mi istruisca nel Dhamma; essendo stato istruito dal Beato ciò sarà per me di beneficio e felicità per lungo tempo». E per la seconda volta, il Beato disse a Bāhiya Dārucīriya: questo non è il momento appropriato, Bāhiya, ci troviamo in mezzo alle case per la questua». Per la terza volta Bāhiya Dārucīriya disse al Beato: « È difficile, Signore, conoscere i pericoli che incombono sulla vita del Beato o sulla mia! Signore, che il Beato mi istruisca nel Dhamma; essendo stato istruito dal Beato ciò sarà per me di beneficio e felicità per lungo tempo».

«Allora[1], Bāhiya, tu dovrai esercitarti nel seguente modo[2]: ‘in ciò che hai visto vi sarà meramente ciò che hai visto; in ciò che hai udito vi sarà meramente ciò che hai udito; in ciò che hai percepito vi sarà meramente ciò che hai percepito; in ciò che hai conosciuto vi sarà meramente ciò che hai conosciuto[3]. Così, Bāhiya, tu dovrai esercitarti. Quando in te[4], Bāhiya, in ciò che hai visto vi sarà meramente ciò che hai visto, in ciò che hai udito vi sarà meramente ciò che hai udito, in ciò che hai percepito vi sarà meramente ciò che hai percepito, in ciò che hai conosciuto, vi sarà meramente ciò che hai conosciuto, allora, tu non sarai  ‘con ciò’[5]; quando tu non sarai ‘con ciò’, allora tu non sarai ‘lì[6]’; quando tu non sarai ‘lì’, allora per te non vi sarà né un ‘qui’ né un ‘oltre’ né ‘tra entrambi[6].‘ Questa è la fine del dukkha [7].

Quindi, in quello stesso momento, grazie a quella concisa istruzione sul Dhamma ricevuta dal Beato, la mente di Bāhiya Dārucīriya fu libera dalle afflizioni tramite il non-attaccamento[6]. Quindi il Beato, dopo aver in tal guisa istruito concisamente Bāhiya Bārucīriya se ne andò via. E poco dopo la partenza del Beato, un vitello travolse Bāhiya Dārucīriya uccidendolo.  E il Beato, dopo aver girovagato in Sāvatthī per la questua e aver consumato il pasto, di ritorno dalla questua, avendo lasciato la città assieme ad un folto gruppo di monaci, vide che Bāhiya Dārucīriya era giunto alla termine della vita. Avendolo visto, disse a quei monaci: «Monaci, prendete il corpo di  Bāhiya Dārucīriya, caricatelo su una barella e dopo averlo scortato [al luogo della cremazione], crematelo ed edificate uno stupa (reliquiario) per lui. Un vostro compagno di disciplina, o monaci, è giunto al termine della vita». «Bene Signore!» risposero quei monaci al Beato, e dopo aver raccolto il corpo di  Bāhiya Dārucīriya, avendolo caricato su una barella e scortato [al luogo della cremazione], cremato il corpo ed edificato un stupa in suo onore si recarono dal Beato. Giunti, resero omaggio al Beato e gli si sedettero accanto. E sedendogli accanto, quei monaci dissero al Beato: «Signore, il corpo di Bāhiya Dārucīriya è stato cremato, ed un stupa è stato edificato. Qual è il suo destino, qual è il suo prosieguo?» «Un saggio, o monaci, fu Bāhiya Dārucīriya; egli ha praticato il Dhamma in accordo al Dhamma senza mai assillarmi con domande puerili riguardanti il Dhamma. (adhikarana); Bāhiya Dārucīriya, o monaci, ha raggiunto la completa estinzione [di dukkha]. Quindi il Beato, avendo compreso il significato di ciò, in quella occasione profferì questi versi ispirati:

«Là dove acqua, terra,
fuoco e vento non trovano appoggio,

Là dove le stelle non brillano,
il sole non sorge;

là dove la luna non splende,
non si conosce l’oscurità.

Quando il saggio, il brahmana
Da se stesso con saggezza realizza questo stato di cose,

allora egli è totalmente libero
dalla forma e dalla non forma,
da felicità e dolore.»

2. Il Commentario

1) tasmā (“perciò”) significa: poiché tu, agitato, mi supplichi con insistenza; oppure poiché tu parli della difficoltà di conoscere gli ostacoli alla vita, e poiché anche i tuoi facoltà (spirituali) sono giunte a maturazione — per questo (tasmā). Ti è solo una particella enfatica (nipātamattaṃ). Te significa “da te stesso”; ora (il testo) espone la modalità con cui deve essere parlato (il discorso che segue). 

2) “sikkhitabbaṃ” (“si deve addestrare”) significa che l’addestramento (sikkhanaṃ) deve essere fatto (kātabbaṃ)secondo le tre discipline (tissannaṃ sikkhānaṃ vasena): quella superiore della condotta (adhisīla-sikkhā),della mente (adhicitta-sikkhā) e della saggezza (adhipaññā-sikkhā).

3) Ma per mostrare (dassento) il modo in cui ci si deve addestrare (yathā sikkhitabbaṃ), egli disse la frase che inizia con: “Nel visto ci sarà solo il visto” (diṭṭhe diṭṭhamattaṃ bhavissati).Lì (tattha), “nel visto ci sarà solo il visto” significa: nel dominio della forma (rūpāyatane), ciò che è semplicemente visto (diṭṭhamattaṃ) dal sapere visivo (cakkhu-viññāṇena).Poiché, come il sapere visivo (cakkhu-viññāṇaṃ), vedendo una forma (rūpe), vede solo la forma (rūpamattameva), e non la sua natura d’impermanenza e simili (na aniccādi-sabhāvaṃ), così pure (evameva) vale per gli altri (sensi).Il significato (attho) è che bisogna addestrarsi (sikkhitabbaṃ): “Per me (me), tramite la coscienza a base visiva (cakkhu-dvārika-viññāṇena), ci sarà solo il visto (diṭṭhamattameva bhavissati).”Oppure (atha vā), “nel visto, il visto” significa: la conoscenza della forma (rūpa-vijānanam) mediante la coscienza visiva (cakkhu-viññāṇena).“Matta” significa “misura” o “limite” (pamāṇaṃ).“Ciò di cui il visto è la misura” è “diṭṭha-matta”;il significato è che la mente (cittaṃ) sarà solo una semplice coscienza visiva (cakkhu-viññāṇa-mattameva).Questo è ciò che si vuole dire:  “Come, di fronte a una forma che è giunta nel campo visivo (āpāthagate rūpe), la coscienza visiva (cakkhu-viññāṇaṃ) non si compiace (na rajjati), non si irrita (na dussati), non si confonde (na muyhati), così, libero da desiderio e simili (rāgādi-virahena), il mio processo di impeto mentale (me javanaṃ) sarà soltanto la coscienza visiva (cakkhu-viññāṇa-mattameva); lo manterrò (ṭhapessāmi) entro il limite della coscienza visiva (cakkhu-viññāṇa-pamāṇeneva).”Oppure (atha vā): “visto” (diṭṭhaṃ nāma) significa “la forma vista (diṭṭhaṃ rūpaṃ) mediante la coscienza visiva (cakkhuviññāṇena).”. “Solo il visto” (diṭṭha-mattaṃ) significa: il triplice gruppo di momenti mentali (citta-ttayaṃ) — cioè ricezione (sampaṭicchana), indagine (santīraṇa), e determinazione (voṭṭhabbana) — che sorgono proprio lì (tattheva uppannaṃ).Come quel (processo mentale) non si compiace (na rajjati), non si irrita (na dussati), non si confonde (na muyhati). così, di fronte a una forma entrata nel campo visivo (āpāthagate rūpe), farò sorgere (uppādessāmi) l’impeto mentale (javanaṃ) entro il limite stesso (teneva … pamāṇena) di quei momenti di ricezione, indagine e determinazione (sampaṭicchanādi), e non permetterò (nāhaṃ … dassāmi) che esso oltrepassi (atikkamitvā) quella misura (taṃ pamāṇaṃ), sorgendo (uppajjituṃ) con desiderio e simili (rajjanādi-vasena). Così deve essere compreso (daṭṭhabbo) il significato (attho) qui (ettha). Lo stesso metodo (eseva nayo) vale per “udito” (sutaṃ) e “percepito” (mutaṃ). “Mutaṃ” deve essere compreso (veditabbaṃ) come il dominio di odori, sapori e oggetti tangibili (gandha-rasa-phoṭṭhabba-āyatanaṃ) insieme con le coscienze che hanno tali oggetti (tadārammaṇa-viññāṇehi saddhiṃ). “Nel conosciuto, solo il conosciuto” significa: qui (ettha pana), “conosciuto” (viññātaṃ nāma) è l’oggetto conosciuto (viññāta-ārammaṇaṃ) mediante l’attenzione mentale (manodvāra-āvajjanena). “Solo il conosciuto in ciò che è conosciuto” significa: il limite (pamāṇaṃ) dell’attenzione (āvajjana). Come l’attenzione non si compiace (na rajjati), non si irrita (na dussati), non si confonde (na muyhati), così, senza permettere che sorga (uppajjituṃ adatvā) in modo da compiacersi e simili (rajjanādi-vasena), stabilirò (ṭhapessāmi) la mente (cittaṃ) entro il limite dell’attenzione (āvajjana-pamāṇeneva): questo è qui il significato (ayamettha attho). Così dunque (evañhi), per te, Bāhiya (te, Bāhiya), bisogna addestrarsi (sikkhitabbaṃ). In questo modo (evaṃ), mediante questa pratica (imāya paṭipadāya), da te, Bāhiya (tayā, Bāhiya), si deve addestrarsi (sikkhitabbaṃ) seguendo (anuvattana-vasena) le tre discipline (tissannaṃ sikkhānaṃ).

Così il Beato (iti bhagavā), in modo conciso e gradito (saṃkhitta-rucitāya), per Bāhiya (bāhiyassa), avendo distinto (vibhajitvā) il campo della visione penetrativa (vipassanāya visayaṃ), in quattro parti (catūhi koṭṭhāsehi): visto, udito, percepito, conosciuto (diṭṭhādīhi), insieme ai sei gruppi di coscienza (chahi viññāṇakāyehi saddhiṃ), differenziato nei sei tipi di oggetto (chaḷ-ārammaṇa-bheda-bhinnaṃ), mostra (dasseti) per lui (assa), in quello, la conoscenza e discernimento mediante comprensione ( ñāta-tīraṇa-pariññā ). Come? Qui (ettha hi), il dominio della forma (rūpāyatanaṃ), in quanto oggetto da vedere (passitabba-ṭṭhena), è chiamato “visto” (diṭṭhaṃ nāma). E la coscienza visiva (cakkhu-viññāṇaṃ pana), insieme con le altre coscienze a base di porta sensoriale (taṃ-dvārika-viññāṇehi saddhiṃ), è “vedere” nel senso di atto di visione (dassana-ṭṭhena). Entrambi questi (tadubhayampi), operando (pavattamānaṃ) secondo le proprie cause (yathā-paccayaṃ), sono soltanto “stati” (dhammamattaṃ eva). Qui non vi è nessuno (na ettha koci) che agisca (kattā vā), né che faccia agire (kāretā vā). Poiché (yato), essendo sorto (hutvā), è per natura soggetto a cessazione (abhāva-ṭṭhena), quindi impermanente (aniccaṃ), oppresso (paṭipīḷana-ṭṭhena) dal sorgere e cessare (udaya-bbaya), e sofferenza (dukkhaṃ), e poiché non può essere controllato (avasavattana-ṭṭhena), è non-sé (anattā). Dov’è dunque (kuto) lì (tattha) per il saggio (paṇḍitassa) lo spazio (okāso) per il desiderio e simili (rajjanādīnaṃ)? Questo è (ayamettha) il significato principale (adhippāyo), e ciò vale anche per “udito” e gli altri (sutādīsu-pi).

4) Ora, per mostrare (dassetuṃ) la comprensione tramite abbandono (pahāna-pariññā), insieme al sentiero e al frutto (saha maggaphalena), per colui che si è stabilito (patiṭṭhitassa) nelle comprensioni mediante conoscenza e discernimento (ñāta-tīraṇa-pariññā), è stato cominciato (āraddhaṃ) il passo che inizia con “Yato kho te, Bāhiyā”.(tattha), yato significa “quando” (yadā) oppure “poiché” (yasmā). Te significa “tuo” o “per te” (tava). Tato significa “allora” (tadā) oppure “perciò” (tasmā).

5) Tena significa “con ciò” (tena): cioè “con il visto e simili” (diṭṭhādinā), oppure “con ciò che è connesso al visto” (diṭṭhādi-paṭibaddhena), come il desiderio e simili (rāgādinā vā). Questo è ciò che si vuol dire (idaṃ vuttaṃ hoti): “Bāhiya, per te, nel tempo (yasmiṃ kāle) o per la ragione (yena vā kāraṇena) in cui, in relazione al visto e simili (diṭṭhādīsu), praticando (paṭipajjantassa) secondo il metodo da me indicato (mayā vutta-vidhiṃ), con la comprensione della natura non invertita delle cose (aviparīta-sabhāva-avabodhena), ci sarà soltanto il visto e simili (diṭṭhādimattaṃ bhavissati); in quel momento, o per quella ragione, non sarai insieme (saha) a ciò che è connesso al visto (diṭṭhādi-paṭibaddhena), come il desiderio e simili (rāgādinā); non sarai eccitato (ratto), né irritato (duṭṭho), né confuso (mūḷho); poiché (kattā) il desiderio e simili sono stati abbandonati (pahīna-rāgādi-kattā), non sarai legato (paṭibaddho na bhavissasi) a ciò che è visto e simili (tena vā diṭṭhādinā saha).”

6)“Perciò tu, Bāhiya, non sarai lì” (na tattha), cioè: quando (yadā), o poiché (yasmā vā), tu non sarai preso (ratto) dal desiderio (rāgena), né irritato (duṭṭho) dall’odio (dosena), né confuso (mūḷho) dall’illusione (mohena), allora, o per quella ragione, tu non sarai in quello (tattha) in relazione al visto e simili (diṭṭhādike). In ciò che è visto (tasmiṃ diṭṭhe vā), udito (sute), percepito (mute) o conosciuto (viññāte vā), tu non sarai aggrappato (allīno) o stabilito (patiṭṭhito), per via di brama, orgoglio e visione errata (taṇhā-māna-diṭṭhīhi), pensando “questo è mio (etaṃ mama), io sono questo (eso ’ham asmi), questo è il mio sé (eso me attā).” In questa misura (ettāvatā), avendo condotto (pāpetvā) la comprensione per abbandono (pahāna-pariññā) al culmine (matthakaṃ), è stato mostrato (dassitā) lo stato di colui che ha distrutto le impurità (khīṇāsava). 

6) “Perciò tu, Bāhiya, non sarai né qui (idha), né là (huraṃ), né tra entrambi (ubhayam-antarenā).” Quando tu, Bāhiya, non sarai legato (paṭibaddho na bhavissasi) a ciò che è visto e simili (tattha diṭṭhādīsu) da quel desiderio e simili (tena rāgādinā), allora tu non sarai né in questo mondo (idhaloke), né nell’altro mondo (paraloke), né in entrambi (na ubhayatthāpi).

7)Questa stessa (eseva) è la fine (anto) della sofferenza (dukkhassa). Poiché questa (ayaṃ eva hi) è la fine (anto) sia della sofferenza delle impurità (kilesa-dukkhassa), sia della sofferenza del ciclo dell’esistenza (vaṭṭa-dukkhassa): significa (attho) che qui (ettha) non vi è più vorticare (parivaṭtum-abhāvo).

Ma coloro (ye pana) che, prendendo la parola (padaṃ gahetvā) “tra entrambi” (ubhayamantarenā), vogliono affermare (icchanti) ciò che si chiama esistenza intermedia (antarābhavaṃ nāma), per essi (tesaṃ) ciò è errato (taṃ micchā). Infatti (hi), l’esistenza dell’“intermedio” (antarābhavassa bhāvo) è effettivamente negata (paṭikkhittoyeva) nell’Abhidhamma. Ma l’espressione antarenā è (pana) un’indicazione di una differente alternativa (vikappa-antara-dīpanaṃ). Perciò (tasmā), questo è qui il significato (ayam ettha attho):“Né qui, né là; nessun’altra alternativa; né entrambi.” Oppure, la parola antarenā (“nel mezzo”, “fra i due”) indica la non-esistenza di un’altra alternativa. Il suo significato è: “né qui, né là, e tra entrambi (questi luoghi) non vi è un’altra sede (esistente)”. E anche coloro che, prendendo in modo scorretto (ayoniso) il significato dei passi canonici: ‘colui che raggiunge il nibbāna nel mezzo’ (antarāparinibbāyī) e ‘colui che è in via di generazione’ (sambhavesī), affermano: “in verità esiste uno stato intermedio (antarābhava)”, — anche costoro si sbagliano. Infatti, nel caso del “colui che raggiunge il nibbāna nel mezzo”, ciò significa che in certe sfere, come negli Āvihā (i deva Avihā del mondo di Brahmā), egli si estingue (muore) prima di oltrepassare la metà della durata vitale, e si estingue “nel mezzo” tramite la realizzazione del sentiero supremo (aggamagga), con la completa estinzione delle impurità (anavasesa-kilesa-parinibbāna); dunque egli è detto “colui che raggiunge il nibbāna nel mezzo” (antarāparinibbāyī), non “colui che esiste in uno stato intermedio” (antarābhavabhūta). E riguardo al secondo termine, sambhavesī (“in via di generazione”), coloro che sono già nati e non nasceranno più, cioè gli arahant (coloro senza influssi, khīṇāsava), sono detti nel passo precedente “bhūtā” (“divenuti”, cioè già esistenti). Poiché i “sambhavesī” (coloro che vanno verso l’esistenza) sono opposti a questi, si intendono i discepoli ancora in addestramento (sekhā) e i laici comuni (puthujjanā), che non hanno ancora abbandonato i legami all’esistenza (bhava-saṃyojana). Oppure, nelle quattro modalità di nascita (yoni), le creature nate da uovo o da grembo (aṇḍaja-jalābujā), finché non rompono il guscio o il sacco amniotico, sono dette “sambhavesī” (“in via di formazione”); una volta usciti dal guscio o dal sacco, sono detti “bhūtā” (“nati, venuti all’esistenza”). Coloro nati da umidità (saṃsedajā) e quelli di nascita spontanea (opapātikā), nel primo istante di coscienza (paṭhamacittakkhaṇa) sono detti “sambhavesī”; dal secondo istante in poi, “bhūtā”. Oppure, in qualunque posizione corporea (iriyāpatha) nascano, finché non passano ad un’altra (condizione o postura), sono detti “sambhavesī”; oltre quel punto, “bhūtā”. Questo è il significato. Pertanto, la (dottrina dello) “stato intermedio” (antarābhava) deve essere rigettata (paṭikkhipitabbā).Infatti, quando esiste un significato diretto e conforme al Canone (pāḷianugata), quale utilità ci sarebbe nel postulare uno “stato intermedio” di significato non determinato e puramente ipotetico? Tuttavia, alcuni dicono così: «Poiché si vede che i fenomeni (dhammā), che scorrono nella continuità (santāna), appaiono (pātubhāvo) anche in altri luoghi (desantara), senza interruzione (avicchedena), come nel caso della continuità priva di coscienza del riso, dell’orzo e simili (vīhi-ādi), così anche nella continuità dotata di coscienza (saviññāṇaka-santāna) dovrebbe esserci la manifestazione, senza interruzione, in altri luoghi. E questa spiegazione risulta coerente solo se si ammette l’esistenza di uno stato intermedio (antarābhava), non altrimenti». A costoro si risponde così: Se così fosse, allora — nel caso di un essere dotato di poteri miracolosi (iddhimato), che ha raggiunto il dominio mentale (cetovasippatta), e che stabilisce un corpo conforme al pensiero (cittānugatikaṃ kāyaṃ adhiṭṭhahantassa) — bisognerebbe ammettere che nel medesimo istante in cui egli si muove dal mondo di Brahmā a questo mondo, oppure da qui al mondo di Brahmā, avvenga una simultanea continuità fenomenica (yutti). Ma se si vuole sostenere che in ogni luogo vi sia sempre un flusso ininterrotto di fenomeni (avicchinna-dese dhammānaṃ pavatti), si dovrebbe allora ammettere che anche i poteri miracolosi (iddhi) degli esseri dotati di tali facoltà sono inconcepibili (acinteyya). E anche qui vale lo stesso: poiché è detto «Il risultato del kamma è inconcepibile» (kamma-vipāko acinteyyo), dunque tale ragionamento è solo una loro opinione soggettiva (matimattameva). Infatti, i fenomeni hanno una natura inconcepibile (acinteyya-sabhāvā): talvolta, a seconda delle condizioni (paccaya), essi appaiono in un luogo disgiunto (vicchinna-desa), talvolta in uno non disgiunto (avicchinna-desa). Per esempio, per effetto di condizioni come il suono della voce (mukhaghosādīhi paccayehi), si vede che in un altro luogo — come su una montagna lucente o in uno specchio (ādāsa-pabbata-ppadesa-ādike) — sorgono fenomeni condizionati (paccayuppannaṃ) come riflessi o echi (paṭibimba-paṭighosa). Pertanto, non tutto può essere generalizzato ovunque (na sabbaṃ sabbattha upanetabbaṃ). Questo è il riassunto. Il commentario completo, con l’esame della dottrina dello stato intermedio (antarābhava), e la dimostrazione con l’esempio del riflesso (paṭibimba-udāharaṇa), deve essere preso dal Ṭīkā del Kathāvatthu-pakaraṇa (Kathāvatthu, 505).

Altri, invece, dicono così:

«Qui (idha) si indica il mondo del desiderio (kāmabhava), là (huraṃ) si indica il mondo immateriale (arūpabhava), e “tra entrambi” (ubhayamantare) si indica il mondo della forma (rūpabhava).»

Altri ancora dicono: «Qui (idha) si intendono le basi interne (ajjhattikāyatanāni), là (huraṃ) le basi esterne (bāhirāyatanāni), e tra entrambe (ubhayamantare) i fattori mentali (citta-cetasikā).»*

Oppure:

«Qui (idha) si intendono i fenomeni-condizione (paccaya-dhammā), là (huraṃ) i fenomeni-condizionati (paccayuppanna-dhammā), e tra entrambi (ubhayamantare) i fenomeni concettuali (paṇṇatti-dhammā).»

Tutte queste interpretazioni non si trovano nei Commentari canonici (aṭṭhakathāsu natthi). Così, in effetti, con il passo “Nel visto ci sarà soltanto il visto…” (diṭṭhe diṭṭhamattaṃ bhavissati), i fenomeni dei tre mondi (tebhūmaka-dhammā) devono essere compresi in quattro aspetti, secondo i modi del vedere, udire, percepire e conoscere (diṭṭhādi-vasena catudhā). E in questo modo, mediante la rinuncia alla presa su “bello, piacevole, permanente e sé” (subha-sukha-nicca-attaggāha-parivajjana), è indicata la contemplazione di “non-bello, insoddisfacente, impermanente e non-sé” (asubha-dukkha-anicca-anattānupassanā):così, insieme alle purificazioni inferiori (heṭṭhimā visuddhī), è esposta brevemente la Vipassanā (visione penetrante).

Con il passo “Perciò, Bāhiya, tu non sarai mediante questo(tato tvaṃ, bāhiya, na tenā) si intende il Sentiero (magga), poiché implica l’estinzione di brama e simili (rāgādīnaṃ samuccheda). Con il passo “Perciò, Bāhiya, tu non sarai là” (tato tvaṃ, bāhiya, na tatthā) si intende il Frutto (phala).E con “Né qui, né là, né tra entrambi” (nevidhā…) si indica la Sfera del Nibbāna senza residuo (anupādisesā parinibbānadhātu). Perciò è detto nel Sutta:

«Allora, per Bāhiya, la mente fu liberata dalle impurità (āsavehi cittaṃ vimuccī).» “Con questo discorso espresso in termini concisi, tāvadeva” significa “proprio in quell’istante stesso”, non in un momento successivo. Anupādāyāti — “Senza afferrare”, cioè senza appropriarsi. Āsavehīti — “Dagli influssi (āsava)”, ossia da quelli chiamati “āsava” (correnti, influssi) perché fluiscono (pavattanato) dal livello dell’Ābhassara fino a quello di Gotrabhū, o perché, essendo presenti da lungo tempo nel flusso mentale (cirapārivāsiyaṭṭhena), sono simili a bevande fermentate come il vino (madirādi). Vimuccīti — “Fu liberato”, sia tramite la liberazione per estinzione definitiva (samuccheda-vimutti) sia tramite la liberazione per pacificazione (paṭippassaddhi-vimutti); cioè, “si liberò, abbandonò (nissajji)”. Poiché, infatti, mentre ascoltava l’insegnamento del Beato, egli purificò la propria condotta morale (sīlāni sodhetvā), e basandosi sul raccoglimento mentale ottenuto (yathāladdhaṃ cittasamādhiṃ nissāya), sviluppò la visione profonda (vipassanā) e, per la sua rapidità d’intuizione (khippābhiññatāya), proprio allora (tāvadeva) distrusse tutte le contaminazioni (sabbāsave khepetvā) e, insieme con le quattro conoscenze analitiche (saha paṭisambhidāhi), raggiunse l’arhatta (arahattaṃ pāpuṇi). Egli, reciso il flusso del saṃsāra (saṃsārasotaṃ chinditvā), giunto al termine del ciclo delle esistenze (katavaṭṭapariyanto), possedendo l’ultimo corpo (antimadehadharo hutvā), mentre si svolgevano le diciannove riflessioni di revisione (ekūnavīsatiyā paccavekkhaṇāsu pavattāsu), spinto dalla natura stessa delle cose (dhammatāya codiyamāno), chiese al Beato l’ordinazione monastica (bhagavantaṃ pabbajjaṃ yāci)…

“Allora il Beato … ecc. … se ne andò.” Si racconta che costui (Bāhiya) nel passato, al tempo del Beato Kassapa, per ventimila anni praticò la vita religiosa. Ma avendo concepito questa idea:

“Un monaco deve procurarsi i requisiti di sostentamento (come cibo, vesti, ecc.) da sé e usarli solo per proprio bisogno, senza appropriarsi di ciò che è stato dato ad altri”, non offrì mai a nessun altro monaco nemmeno una scodella o una veste. Per questo motivo non maturò in lui la condizione karmica (upanissaya) necessaria per ricevere l’ordinazione con la formula “Ehi bhikkhu”. Alcuni tuttavia dicono:

“Costui, in un periodo in cui non esisteva un Buddha nel mondo, divenne un ladro. Andava nella foresta con arco e frecce e, un giorno, vedendo un Paccekabuddha (Buddha solitario), spinto dal desiderio di impadronirsi della sua ciotola e veste, lo trafisse con una freccia e se ne impadronì. Per quella ragione, non avrebbe potuto ottenere nella vita futura una ciotola e veste miracolose; e conoscendo ciò, il Beato non gli conferì la consacrazione con la formula “Ehi bhikkhu”.” Mentre costui poi andava in cerca di una ciotola e di una veste,una mucca con il suo vitellino gli corse incontro a grande velocità, lo colpì e lo uccise.

A proposito di ciò, si dice nel testo:

“Subito dopo che il Beato si fu allontanato,una mucca con un vitellino assalì Bāhiya Dārucīriya e gli tolse la vita.” Lì, “subito dopo che il Beato si fu allontanato” significa: non molto tempo dopo la partenza del Beato. “Una mucca con un vitellino” — si trattava in realtà di una yakkhinī (spirito femminile), che aveva assunto la forma di una mucca con il vitello. “Assalì” significa: lo sopraffece e lo calpestò. “Tolta la vita”: a causa di un’antica inimicizia sorta in una vita precedente (per aver ferito un Paccekabuddha), ella sviluppò verso di lui, appena lo vide, una mente piena d’odio e lo trafisse con il corno, uccidendolo. Il Beato, dopo aver terminato il giro per la questua e consumato il pasto, mentre usciva dalla città insieme a molti monaci, vide il corpo di Bāhiya disteso nel luogo delle pire funebri. Allora ordinò ai monaci:

“O monaci, recatevi a una porta della città, fatevi portare una barella, prendete questo corpo,portatelo fuori città, crematelo e costruite un reliquiario (thūpa).”

I monaci fecero così. Poi, tornati al monastero, si avvicinarono al Beato, gli riferirono ciò che avevano fatto e chiesero quale fosse la sua destinazione dopo la morte. Allora il Beato spiegò che egli aveva raggiunto il completo nibbāna. I monaci chiesero:

“Signore, voi dite che Bāhiya Dārucīriya raggiunse l’arhatta. Ma quando ottenne egli l’arhatta?”

Il Beato rispose: “Mentre ascoltava il mio insegnamento.”

Essi allora replicarono: “Quando, o Beato, gli avete insegnato il Dhamma?”

Il Beato disse: “Proprio oggi, mentre andavo per l’elemosina, stando in mezzo alla strada.”

Essi dissero: “Ma, o Beato, fu davvero breve quel vostro insegnamento, pronunciato lì, nel mezzo della via. Come poté egli raggiungere un così alto conseguimento con così poco?”

Il Beato disse: “O monaci, voi misurate il mio Dhamma come ‘poco o molto’? Anche mille versi, se privi di significato, non sono migliori. Ma una sola strofa, se conduce al frutto, è superiore.”

E a conferma citò la strofa del Dhammapada (v. 101):

“Anche se uno recitasse mille strofe prive di senso, una sola parola di Dhamma, che, ascoltata, porta alla calma, è superiore.”

Dopo aver citato questa strofa del Dhammapada, il Beato disse: “E non soltanto egli è degno d’onore perché ha raggiunto il completo nibbāna, ma anche perché, tra i miei discepoli monaci, egli è il primo fra coloro che raggiungono la conoscenza immediata (khippābhiññā).”

E dichiarò nel Aṅguttara Nikāya (1.216): “In quanto alla rapidità del conseguimento della conoscenza immediata, tra i miei discepoli monaci, il primo è Bāhiya Dārucīriya.”

A proposito di ciò, nel testo si dice: “Allora il Beato, dopo essere andato per l’elemosina a Sāvatthī,… ecc. … disse: ‘Monaci, Bāhiya Dārucīriya è completamente estinto.’”

[Spiegazione dei termini] “Dopo il pasto” (pacchābhattan) — significa: dopo aver terminato di mangiare. “Terminato il giro dell’elemosina” — cioè ritornato dopo aver compiuto la ricerca del cibo. Con le due espressioni insieme si intende: dopo il pasto. “Portatelo fuori” — cioè fuori dalla città. “Crematelo.” “Erigete un reliquiario per lui.” Ciò significa: prendete le reliquie del corpo di Bāhiya e costruite un cetiya (stūpa). E il Beato ne spiegò il motivo: “O monaci, egli era vostro compagno nella vita santa (sabrahmacārī).”

Il significato è: Colui che praticò la vita santa come voi, che osservò la stessa disciplina e la stessa via del Dhamma, ora è morto: perciò portatelo fuori e crematelo, e costruite per lui uno stūpa. Alla domanda: “Quale fu la sua destinazione dopo la morte?” (“gati” significa: il destino, la rinascita, o lo stato finale — ariya o puthujjana.) Il termine “abhisamparāya” indica: la rinascita futura o la cessazione dell’esistenza. Anche se il suo stato di completo nibbāna era già stato implicito nell’ordine di costruire lo stūpa, alcuni monaci che non lo avevano compreso lo chiesero esplicitamente. “Paṇḍito” significa “saggio”, perché con la saggezza del più alto sentiero (aggamaggapaññā) ha visto la verità, è detto “paṇḍito” (letteralmente: colui che è andato oltre con la saggezza). “Paccapādi” — egli si comportò conformemente, cioè praticò. Dhammassa anudhammaṃ” — praticò il Dhamma in accordo con il Dhamma: cioè seguì la via graduale della purificazione della virtù, ecc. Oppure: “il Dhamma” indica il nibbāna, e “l’Anudhamma” i sentieri e frutti che conducono ad esso.“Na ca maṃ dhammādhikaraṇena vihesesi” — “E non mi arrecò disturbo in relazione al Dhamma”: cioè non mi recò molestia, perché praticò come gli avevo istruito. Chi, dopo aver ascoltato il Dhamma o ricevuto un oggetto di meditazione dal Maestro, non pratica secondo l’istruzione, quello, si dice, reca molestia al Maestro. Come è detto:

“Non parlai al saggio (paguṇa) con mente di violenza; insegnai un Dhamma sublime tra gli uomini, o Brahma.”

(Mahāvagga 9; Majjhima Nikāya I.283; II.339)

Oppure, “non mi recò molestia” significa: non causò danno al Dhamma stesso, poiché lo praticò correttamente, e non danneggiò il corpo del Dhamma del Maestro. Egli portò a compimento la retta pratica e raggiunse il nibbāna senza residui (anupādisesā nibbānadhātu). Per questo fu detto: “Bāhiya Dārucīriya è completamente estinto.”

“Avendo conosciuto questo significato” —cioè avendo compreso che il venerabile Bāhiya è entrato nel completo nibbāna senza residui, e che la condizione dei Liberati è difficile da comprendere per le persone comuni,il Beato pronunciò questo Udāna che esprime la potenza del nibbāna non basato su alcun appoggio (appatiṭṭhita-parinibbāna). Spiegazione del verso finale dell’Udāna

“Là dove l’acqua non trova appoggio, dove non trovano sostegno né terra, né fuoco, né aria — poiché il nibbāna ha natura non composta (asaṅkhata-sabhāva), là non può esserci alcuna base per i fenomeni composti.”

Sukka — le stelle, splendenti per la loro luce, non brillano lì; neppure il sole illumina, né la luna rifulge. E tuttavia, lì non c’è oscurità.” Perché, se non c’è materia visibile (rūpa), non può esservi tenebra.

“Quando il Muni (il Saggio) lo conosce da sé, con la conoscenza diretta, allora egli è libero dal corpo e dall’incorporeo, dal piacere e dal dolore.”

Qui “Muni” è l’Ariya, il saggio discepolo, chiamato così perché contempla le Quattro Nobili Verità (catusacca-munanato), e perché è dotato della saggezza della concentrazione (mona). Quando, nel momento supremo del sentiero (aggamagga), con conoscenza diretta, senza basarsi su altri, egli conosce e realizza il nibbāna, allora è detto “avedī” (“ha conosciuto”, “ha compreso”).

“Rūpā arūpā ca sukhadukkhā pamuccati” —cioè, dopo aver conosciuto quel nibbāna, egli è liberato da ogni forma e non-forma, da ogni piacere e dolore, da tutto il ciclo dell’esistenza. Con questi versi il Beato mostra: “Il destino di mio figlio Bāhiya è questo: la piena liberazione nel nibbāna.”

Paramatthadīpanī

  • Questa è l’interpretazione sostenuta dal Ven. Ñāṇavīra Thera

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