
Le 18 scuole del Buddhismo antico,
versione condensata
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Introduzione
L’origine e lo sviluppo delle diciotto scuole del Buddhismo antico indiano è tutt’ora oggetto di dibattito e controversie, data la scarsità delle fonti certe e la molteplicità dei resoconti tramandatici dalle differenti tradizioni. Della lista della diciotto scuole vi sono cinque versioni differenti: quella dei Theravadin, preservata in testi quali il Kathāvatthu («Le Controversie»), il Mahavansa e il Dipavamsa; quella contenuta nel testo di Vasumitra intitolato Samayabhedoparacana cakra; Il testo di Vinitadeva, un monaco Mūlasarvāstivādin; quella contenuta nel testo della scuola Mahāsāṃghika intitolato Śāriputraparipṛcchā, e quella tramandataci dai testi Mahāyāna del Buddhismo cinese. In questo studio seguiremo la traccia fornitaci dal Kathāvatthu, dal Mahāvamsa e dal Dipavamsa della tradizione Theravāda, attingendo da altre fonti, come il testo di Vasumitra, al fine di fornire una descrizione più chiara possibile degli elementi dottrinali che contraddistinguono ciascuna scuola.Secondo il Mahāparinibbānasutta, il Buddha – consapevole delle differenze di vedute già p resenti nell’ampia cerchia dei suoi discepoli – diede alcune indicazioni su come distinguere l’autentico Dharma dalle opinioni personali dei singoli monaci o gruppi di monaci. Queste istruzioni sono conosciute con il nome di Catumahāpadesa o Quattro Grandi Standard:
«Quali sono, o monaci, i quattro grandi standard? Ecco o monaci, Un certo monaco potrebbe affermare: ‘Amici, proprio dalla bocca del Sublime io ho udito tale discorso, proprio dal lui ho appreso -Così è il Dharma, così è la disciplina, questo è l’insegnamento del Maestro- Le parole di questo monaco non dovrebbero essere né accettate con entusiasmo né rifiutate con avversione; evitando sia un’accettazione entusiastica che un rifiuto astioso, dopo aver appreso correttamente tali affermazioni e spiegazioni semantiche, tali affermazioni dovrebbero essere comparate con i sutta e confrontate con il Vinaya; se, comparati con i Sutta e confrontati con il Vinaya, la lettera e lo spirito di queste parole non si accordano con i Sutta e non sono in accordo con il Vinaya, allora potrete giungere alla conclusione: Sicuramente non è questa la parola del Sublime e ciò è stato erroneamente inteso da quel monaco. A questo punto voi potrete rifiutare tale insegnamento. Viceversa se comparati con i Sutta e confrontati con il Vinaya, la lettera e lo spirito di queste parole risultano coincidere con i Sutta e sono in accordo con il Vinaya, allora potrete giungere alla conclusione: Sicuramente questa è la parola del Sublime e ciò è stato inteso correttamente da quel monaco. A questo punto voi potrete accettare ciò.»
Tuttavia, queste precauzioni da parte del Maestro non furono in grado di evitare il proliferare di opinioni divergenti circa l’interpretazione dei suoi discorsi fra i membri della comunità da lui fondata, né di impedire il diffondersi di un incredibile numero di discorsi liberamente attribuitigli nei decenni successivi alla sua morte da membri di questa o quella scuola. Nel periodo successivo alla morte del fondatore, l’insegnamento esposto in numerosi discorsi pubblici, si evolse lentamente un sistema dottrinario, detto Buddhasāsana (Dottrina del Buddha). Gli enunciati contenuti nei discorsi vennero sintetizzati in un sistema dottrinale abbastanza omogeneo, ed in seguito interpretati e commentati in specifici testi detti esegetici detti Aṭṭhakathā (commentari). La predicazione del Buddha e le sue vicende terrene furono per secoli tramandate oralmente, di volta in volta convocate riunioni dei monaci in cosiddetti concili per determinarne la forma e il contenuto originale, depurandolo da quanto si riteneva introdotto successivamente, finché, circa nell’anno 80 a.C. furono per la prima volta messe per iscritto nella prima redazione del Canone nell’isola di Ceylon. Questa redazione originale è purtroppo andata persa. il Canone Pali ci è tuttavia giunto integro, a meno di successive edizioni e revisioni difficili da identificare, tramite le successive copie che ne furono fatte nei monasteri cingalesi ed esportazioni e traduzioni compiute in altri paesi dell’area. Dopo il grande trapasso (parinirvana) del Buddha, i suoi discorsi vennero raccolti e classificati in testi contenuti nei piṭaka (sezioni) e nei nikāya (raccolte), in occasione del primo grande concilio, ( Sanghayana) dei grandi Arahant, svoltosi sotto la guida del Venerabile Mahakassapa. Secondo Buddhaghosa, gli insegnamenti del Buddha vennero raccolti in cinque Nikāya (raccolte) in ragione della loro lunghezza. I discorsi più lunghi furono raccolti nel Dīghanikāya (Raccolta dei testi lunghi), mentre i discorsi di media lunghezza vennero inseriti nel Majjhima Nikāya (Raccolta dei testi di media lunghezza); Nell’Aṅguttaranikāya (Raccolta Numerica) vennero inclusi i discorsi numerati. Alcuni Insegnamenti dati dal Buddha (Dhamma) furono compattati e riuniti in base all’argomento e raccolti nel Saṃyutta Nikāya (Raccolta dei Discorsi in Gruppi); infine, i discorsi più brevi nel Khuddaka Nikāya (Raccolta dei discorsi Brevi). Ognuna di queste raccolte venne quindi assegnata ad un gruppo di monaci allievi di uno stesso maestro per memorizzarli e preservare il Dhamma per le future generazioni. Il Dīghanikāya venne assegnato ai discepoli di Ānanda, Il Majjhima Nikāya ai discepoli di Sariputta, l’Aṅguttaranikāya ai discepoli di Anuruddha ed Il Saṃyutta Nikāya ai discepoli di Maha Kassapa. Il Khuddaka Nikāya venne memorizzato da tutti i monaci collettivamente e così preservato nei secoli. Fu proprio per via delle diverse interpretazioni date a questo sistema di dottrine, si vennero a formare le diciotto scuole del primo Buddhismo oggetto del nostro studio. Ognuna di esse differiva dalla altre per via delle differenti interpretazioni date ai punti più sottili del sistema dottrinale del Buddhasāsana.
I grandi concili (Saṅgāyana)
Vi furono in tutto sei grandi concili buddhisti, ma tuttavia, ai fini della nostra ricerca, risultano di importanza capitale solamente i primi tre, tenutisi rispettivamente a Rajagaha (VI sec. a.C), Vaishali (V sec. a.C.) e Pataliputra, (l’odierna Patna), nel terzo secolo a.C.
Il Primo Concilio
Circa tre mesi dopo la morte del Buddha, i discepoli superstiti, al fine di preservare il suo insegnamento per le generazioni successive, decisero di tenere un concilio in cui sarebbero stati fissati sia l’insegnamento che le regole della disciplina monastica, sulla base di ciò che era stato udito dai discepoli più vicini al maestro, in special modo Ānanda e Upali, l’ex barbiere dei Sakya, che in quanto addetto alla rasatura dei nuovi ordinandi aveva udito personalmente un’infinità di volte la recitazione delle regole monastiche imposta ad ogni nuovo monaco. Ānanda venne invitato a condividere i discorsi da lui uditi, mentre Upali trasmise per intero il corpus della regola monastica. Il concilio, presieduto da Mahakassapa e patrocinato dal Re Ajatasattu, venne tenuto in una località tutt’ora esistente chiamata “cava dei sette saggi”, -un terrazzamento roccioso comprensivo di sette cave che si affaccia sulla città di Rajgir, nell’odierno stato del Bihar – e continuò per circa tre mesi.
Il secondo Concilio
Un secolo dopo questo primo concilio, all’interno della comunità monastica vennero a manifestarsi delle divergenze in merito a certi punti minori della disciplina: Un gruppo di monaci, detti Vajjiputtaka (dal nome del paese di provenienza), propose l’abolizione di un decina di restrizioni presenti nel codice etico dei monaci elencate nella seconda sezione del Vinaya Pitaka, e nel Mahāvaṃsa, un testo redatto a Ceylon sulla storia del Buddhismo antico. Le dieci regole in questione erano:
1. La possibilità di conservare del sale per condire gli alimenti non saporiti,
2. Il mangiare fuori dal tempo prescritto, ovvero anche dopo mezzogiorno,
3. Andare nei villaggi ed accettare altro cibo dopo aver consumato il pasto principale,
4. Celebrare l’assemblea mensile (uposatha) in diverse sedi dello stesso distretto,
5. Prendere decisioni sull’amministrazione dell’ordine in assenza del numero legale,
6. Seguire l’esempio del proprio precettore/maestro anche in caso di comportamenti erronei o contrari al Dhamma e alla disciplina,
7. Bere latte non frullato,
8. Bere bevande alcoliche non fermentate,
9.Utilizzare stuoie per sedersi non rifinite da frange (senza orli),
10.Accettare oro e argento dai laici, cioè il denaro.
Queste proposte suscitarono polemiche e discussioni senza fine, e si formarono due fazioni, i favorevoli e i contrari. Al fine di risolvere la questione, venne indetto un secondo concilio, tenutosi nella città di Vaishali, ma non riuscendo a trovare una posizione comune, la questione venne decisa con un referendum fra gli otto monaci più anziani presenti, che rigettarono in toto le proposte di modifica avanzate dai monaci Vajjiputtaka. Qualche tempo dopo, i Vajjiputtaka, tennero un contro-concilio in cui venne elaborato un manifesto in cinque punti dove per la prima volta venivano messe in discussione le qualità di un Arahant. Le cinque obiezioni erano:
1. Un Arahant può essere soggetto a sogni erotici accompagnati da polluzioni notturne;
2. Un Arahant non è ha la piena conoscenza in riguardo ad argomenti non dharmici;
3. Un Arahant può essere soggetto al dubbio in riguardo a cose diverse dal Dharma;
4. Non è possibile ottenere la condizione di Arahant senza l’ausilio di un maestro esterno;
5. Un Arahant potrebbe intraprendere il nobile sentiero sulla base di stati d’animo negativi come la tristezza o la pena.
A questo contro-concilio, presieduto dal monaco Mahadeva, prese parte un grande numero di monaci, e per questa ragione, i suoi partecipanti presero il nome di Mahāsāṃghika, quelli della grande assemblea. I monaci anziani, rimasti in minoranza, rigettarono simili speculazioni costruite ad arte contro di loro, decisi a preservare l’insegnamento nella sua forma originaria. Si consumò quindi la prima vera e propria scissione nell’ordine monastico: da una parte i Mahāsāṃghika, e dall’altra gli anziani dalle idee più conservatrici. Da queste due fazioni, sorsero poi le 18 scuole, sei dai Mahāsāṃghika e 12 dal gruppo degli anziani. Queste diciotto scuole collettivamente formano ciò che gli studiosi chiamano «Buddhismo dei Nikāya». Secondo il Mahāvaṃsa:
«Quel concilio tenuto all’inizio dai Mahathera capeggiati da Mahakassapa si chiama concilio dei thera. Una sola fu la Dottrina dei monaci anziani, nei primi cento anni; in seguito da quella nacquero altre scuole. Quei monaci dissidenti, in tutto diecimila, che erano stati censurati dai Thera del secondo concilio fondarono la scuola detta Mahāsāṃghika; da questa ebbe origine la Gokulikā e l’Ekavyohārikā. Dai Gokulikā nacquero la Pannattivāda e la Bahulikā, e da questa la Cetiyavāda; con la Mahāsāṃghika in tutto sei scuole. Inoltre, dai Therāvdin (gli anziani) nacquero queste due scuole: quella dei monaci Mahīmśāsaka e quella dei Vajjiputtaka. Dai Vajjiputtaka nacquero i dhammuttariya, i Bhaddayānika, i Chandāgārika, e i Sammiti,. Dai monaci Mahīmśāsaka nacquero inoltre questi due: i Sabbatthavādin e i dhammaguttika; dai Sabbatthavādin nacquero i Kassapiya e da questi i Sankatika; dai Sankatika nacquero i Suttavādin. Insieme alla scuola Theravāda queste sono le dodici che, con le sei anzidette, fanno diciotto. Nei successivi cento anni sorsero altre diciassette scuole, ed altra ancora ne sorsero in seguito: La Hemavata, la Rājagirika, la Siddhatthaka, quella dei monaci Pubbaseliya, l’ Aparaseliya e la Vajiriya; queste sei limitatamente al Jambudipa (India). La Dhammaruci e la Sagaliya limitatamente all’isola di Lanka.»
Il terzo concilio
Secondo il Kathāvatthu, circa trecento anni dopo il trapasso del Buddha, L’imperatore Asoka, dopo avere constatato la morte di milione di persone durante la battaglia finale contro il Re del Kalinga, precipitò in uno stato di disgusto profondo. Fu in quel periodo che un giovane arahant di soli sette anni di nome Nigrodha venne in aiuto dell’imperatore, aiutandolo a superare i sensi di colpa. Asoka rimase così impressionato da Nigrodha al punto di sviluppare una vera e propria adorazione verso il Buddhismo. Asoka ordinò la costruzione di 84.000 Stupa e monasteri in tutta l’India in onore degli 84.000 insegnamenti del Buddha. In conseguenza dell’espansione dell’ordine del Buddha, un gran numero di persone venne attratta dal Buddhismo, e per questa ragione divenne difficile persino trovare persone disposte a sostenere i sacerdoti delle altre religioni. Così, molti di questi sacerdoti entrarono nell’ordine buddhista. Per loro non rimaneva nient’altro da fare se non diventare monaci buddhisti. In questo modo, centinaia di sacerdoti vennero ordinati monaci buddhisti, ma invece di vivere in accordo agli insegnamenti del Buddha, questi continuarono a praticare i vecchi rituali ed i sacrifici all’interno dei monasteri. I monaci virtuosi cominciarono a svolgere le loro attività separatamente rifiutandosi di celebrare l’Uposatha (la pratica dell’ osservanza dei precetti per i monaci) assieme ai monaci corrotti. In questo modo, la cerimonia di Uposatha non venne più celebrata per sette anni. Infastidito da questo stato di cose, Asoka inviò un emissario per convincere i monaci a celebrare l’Uposatha congiuntamente; quando questi si rifiutarono di sottostare all’ingiunzione di Asoka, l’emissario, in un eccesso di zelo, decapitò con la propria spada ciascuno di quei monaci. Rammaricato per l’accaduto, Asoka indisse un nuovo concilio, con l’intento di purificare la dottrina buddhista dalle contaminazioni delle credenze ad esso estranee. Questo terzo concilio si tenne a Pāṭaliputra, sotto la supervisione di Moggalliputta Tissa, il monaco più anziano ed esperto di quell’epoca. Alla fine di questo terzo concilio, Asoka decise di inviare gruppi di monaci in qualità di messaggeri al fine di diffondere gli insegnamenti del Buddha. L’arrivo dell’Arahant Mahinda a Ceylon (Sri Lanka) fu il risultato di questo grande sforzo prodotto da parte del Re Asoka.
Fu proprio durante il concilio di Pataliputra che Moggalliputta Tissa scrisse il Kathāvatthu (libro sulle controversie), al fine di confutare le teorie da lui considerate eretiche delle altre scuole. Buona parte delle notizie circa le diciotto scuole e le relative posizioni dottrinarie derivano proprio dal testo di Moggalliputta. Il Kathāvatthu documenta oltre 200 controversie. I punti discussi sono divisi in quattro paṇṇāsaka (letteralmente “gruppo di 50”). Ogni paṇṇāsaka è di nuovo diviso in 20 capitoli (vagga) in tutto. Inoltre, altri tre vagga seguono i quattro pañāsaka. Ogni capitolo contiene domande e risposte per mezzo delle quali vengono presentate, confutate e respinte le opinioni più diverse. La forma dei dibattiti non dà alcuna identificazione dei partecipanti e non esce dal dibattito per dichiarare esplicitamente da che parte è giusta.
I punti di divergenza
Per C.G Pande, i principali argomenti di divergenza fra le varie scuole del primo buddhismo furono: 1. la natura trascendente (lokottarā) del Buddha. 2. Se ogni parola del Buddha è capace di liberare dal samsara colui che le ascolta. 3. inoltre, quando venivano notata delle contraddizioni nei testi canonici, sorse il problema distinguere i sutra il cui significato è diretto o esplicito (nitartha) da quelli dal significato recondito o indiretto (neyyata). In seguito, questo portò allo sviluppo della teoria delle Due Verità della scuola Satyasiddhi, considerata come l’anello di congiunzione fra le scuole del Nikāya e il Mahāyāna. 4.Assieme alla questione sulla trascendenza del Buddha, sorse quello circa la sua nascita ed il rapporto con il sangha. 5. Mentre l’ideale del Buddha diventava sempre più preponderante, quello dell’Arahant entrava in declino, e questo era il punto più dibattuto dell’intera gamma delle controversie settarie. 6. Il problema dell’esistenza del Pudgala. (persona). 7. Il problema dell’Antarabhava (stato intermedio). 8. l’esistenza degli oggetti passati e futuri. 9. la natura degli Anusaya o passioni latenti. 10. il funzionamento della coscienza. 11. il numero di Asamkrta (fenomeni incondizionati). 12. l’ordine del Bhavana ( meditazione, sviluppo interiore) e dell’abhisamaya ( realizzazione).
Le diciotto scuole del Buddhismo indiano
1. Vibhajjavāda
Vibhajjavāda (Particolarismo) fu una scuola del Buddhismo antico nata come evoluzione delle idee del Gruppo degli Anziani (Sthavira Nikāya), contrari alle innovazioni proposte dai Mahāsanghika. I vibhajjavādin si opposero inoltre alle dottrine pan-esistenzialiste dei Sarvastivādin e dei Kassapiya e al personalismo (Pudgalavāda) dei Vajjiputtaka e affini. Vibhajjavāda e Theravāda
A partire, dal primo secolo dopo la morte del Buddha, Vibhajjavāda divenne sinonimo di “Dottrina dei Thera”. Thera è sinonimo di ‘esperto’, ‘autorevole’, senza alcun riferimento all’età anagrafica. Sia il Kathāvatthu che il Dīpavaṁsa indicano in Mogaliputta Tissa, nel suo pupillo Mahinda e nella di lui sorella Sanghamittā, gli artefici della diffusione del Buddhismo in Sri Lanka, in quanto esponenti della scuola Vibhajjavāda o Theravāda; questo dimostra come i due termini fossero di fatto sinonimi. Vibhajjavāda fu perciò l’appellativo con il quale venivano identificati i discendenti di quei monaci che nel Secondo Concilio (383 a.C. circa) rigettarono le cinque tesi di Mahādeva dalle quali in seguito nacque la scuola dei Mahāsanghika. Ai monaci Vibhajjavādin si deve la redazione definitiva del Canone Buddhista in lingua Pāli (Tipiṭakapāḷi), nonché la diffusione del Buddha Dhamma nei paesi a Sud della terra d’origine, in Sri Lanka, nell’Andra Pradesh indiano e altrove. Nel periodo successivo al Terzo Concilio, i Vibhajjavādin divennero noti con l’appellativo di Tambapaṇṇiya (Singalesi), o Mahāvihāravāsin, dal nome del principale monastero di questa scuola, situato presso l’antica capitale singalese di Anuradhapura; in seguito ,divennero noti anche come Theriya. Questa scuola si diffuse dallo Sri Lanka verso lo stato indiano dell’Andhra Pradesh, per poi diffondersi in tutto il Sud Est Asiatico.
Secondo L.S. Cousin, «È Probabile che in origine il nome Tampanniya si riferisse semplicemente a monaci che vivevano sull’isola di Taprobane. In seguito, attorno al secondo o terzo secolo a. C. ,quando monaci missionari migrarono da Ceylon verso il sud dell’India (e forse verso il Sud-Est Asiatico) che essi venissero naturalmente chiamati Tambapanniya. Per estensione, il nome Tambapanniya venne adottato dai loro discepoli, e così, una confraternita monastica conosciuta con quel nome venne a formarsi nel continente. In seguito, questo nome, (come anche Vibhajjavādin) venne gradualmente abbandonato e rimpiazzato da Theriya e Theravādin (non più impiegato dalla maggior parte delle altre scuole non Mahasānghika) o da Mahāvihāravāsin.»
2. Sarvāstivāda
La scuola Sarvāstivāda, (pāli: Sabbattivāda), fu una delle 18 scuole del buddhismo antico nate a seguito di interpretazioni discordanti dei discorsi del Buddha.Il nome Sarvāstivāda deriva da sarva, ‘tutto’, asti, ‘esiste’ e vāda, ‘dottrina’. Sarvāstivāda è la teoria secondo la quale tutti i fenomeni (dharmā) del passato, presente e futuro, esistono, in una qualche forma, nel momento presente. Secondo il Mahāvamsa, la scuola Sarvāstivāda nacque da una scissione in seno alla scuola Mahīmśāsaka, nata a sua volta da una scissione con la scuola Vibhajjavāda dal quale discende l’attuale scuola Therāvāda. I testi della scuola Sarvāstivāda furono scritti in sanscrito e in Gāndhārī; in seguito, larga parte del corpus letterario di questa scuola venne tradotto in cinese e in parte in Tibetano. L’origine geografica esatta della scuola Sarvāstivāda è incerta; sappiamo però che all’indomani del terzo concilio buddhista (250 a. C. circa), in seguito alla preferenza accordata dall’ imperatore Asoka ai vibhajjavādin, i sarvastivādin si stabilirono nel Kashmir, dove grazie anche al sostegno dell’imperatore Kaniskha (127–150 d.C) divennero la scuola predominante. Da qui essa si diffuse ulteriormente nei territori dell’Asia Centrale, nel regno di Gandhara, Il cui territorio è oggi incluso negli attuali stati di Pakistan e Afghanistan. Per questa ragione, le scuole facenti capo alla dottrina Sarvāstivāda ricevettero l’appellativo di Tradizione Settentrionale dello Sthavira Nikāya, in contrasto con la Scuola Meridionale, Vibhajjavāda, diffusasi nel sud dell’India e in Sri Lanka.
La dottrina del «Tutto esiste»
Secondo il commentario al Kathāvatthu, l’origine della dottrina circa l’esistenza dei fenomeni passati e futuri nel presente è da riconrdursi a una comprensione letterale (e perciò maldestra) della seguente affermazione:
«Qualsiasi forma—passata, futura o presente; interna o esterna; grossolana o sottile; comune o sublime; lontana o vicina—fonte di attaccamento, che si sviluppa e cresce, ed è accompagnata dalle formazioni mentali: ciò è chiamato la forma come l’ aggregato dell’attaccamento…Qualsiasi sensazione …Qualsiasi percezione…Qualsiasi formazione mentale …Qualsiasi coscienza…Questi sono chiamati i cinque aggregati dell’attaccamento.»
(SN 22.48)
Nel Samyukta-abhidharma-hrdaya, un testo Sarvāstivādin, viene offerta la seguente spiegazione:
«Se non ci fossero passato e futuro, allora non ci sarebbe alcun presente; se non ci fosse un presente, non ci sarebbero neanche fattori condizionati (samskrta dharma). Ecco perché esistono i tre periodi di tempo (trikala). Non è corretto affermare che ciò che è remoto è passato e che ciò che esisterà in futuro non esistono, e che esiste solo il presente, Perché? Perché esiste un risultato (vipaka) dell’azione. Il Buddha ha affermato: «Esiste l’azione ed esiste la sua retribuzione». Non è possibile che questa azione e la sua retribuzione siano entrambe presenti. Quando l’azione è presente, si dovrebbe riconoscere che la retribuzione avverrà in futuro; quando è presente la retribuzione, si dovrebbe riconoscere che l’azione è già passata.»
Secondo Vasubandhu, vi sono quattro generi di Sarvāstivādin, con le relative teorie:
«Il ven. Dharmatrata sostiene la teoria del bhavanyathatva: i tre periodi di tempo, passato, presente e futuro, si differenziano per la loro non identità (differenza) nella modalità d’esistenza (bhava). Quando un dharma passa da un periodo temporale all’altro, la sua natura non viene modificata, ma la sua esistenza sì.»
«Il ven. Ghosaka sostiene la teoria del laksananyathatva: i tre periodi differiscono per via delle loro differenti caratteristiche. Quando un dharma è passato, è dotato di caratteristiche del passato (laksana), ma non è tuttavia privo delle caratteristiche del presente e del futuro.»
«Il ven. Vasumitra sostiene la teoria dell’avasthanyathatva: i tre periodi di tempo differiscono per via della differenza di condizione (avastha). Un dharma, attraversando i periodi di tempo, avendo assunto una certa condizione, diventa differente per via del mutamento della sua condizione, non per via di una differenziazione nella sua sostanza.»
«Il ven. Buddhadeva sostiene la teoria dell’anyonyathatva: i tre periodi di tempo sono stabiliti sulla base delle relazioni reciproche; un dharma, attraversando i diversi periodi temporali, assume nomi diversi sulla base della relazione; ovvero, è definito come passato, futuro o presente, in relazione a ciò che lo precede o che lo seguirà. Ad esempio, la stessa donna è definita sia come ‘figlia’ che come ‘madre’.»
Kṣaṇavada : la teoria dei momenti
Secondo Jan Westerhoff, «Il sistema Sarvāstivāda proponeva la teoria dello kṣaṇavāda secondo la quale i dharmā esistono solo per un brevissimo lasso di tempo o momento (kṣaṇa), quantificabile nella quantità di tempo necessaria ad un uomo per schioccare le dita, diviso ulteriormente in sessantaquattro unità.»
Svabhāva, la natura intrinseca dei fenomeni
Per spiegare come sia possibile che un fenomeno rimanga identico a se stesso e tuttavia subisca un cambiamento attraversando i tre periodi temporali, i Sarvāstivāda di approccio Vaibhāṣika asserivano l’esistenza di settantacinque dharmā dotati di una propria esistenza intrinseca (svabhāva); tale esistenza intrinseca caratterizza quei fenomeni esistenti sostanzialmente (dravyasat), mentre è assente in quelli costituiti da aggregazioni di dharmā, dotati solamente di un’esistenza nominale (prajñaptisat).[1] I svabhāva-dharmā sono i mattoni fondamentali, i componenti irriducibili o ‘atomi’ costituenti i fenomeni esistenti nominalmente. I settantacinque svabhāva-dharmā, secondo l’Abhidharma-kośa di Vasubandu [2] sono:
• Le cinque facoltà di senso,
• I cinque oggetti di senso,
• L’avijñaptirūpa (forme impercettibili, materialità non manifesta),
• Citta (mente),
• Quarantasei fattori mentali concomitanti (caitta),
• Quattordici formazioni non concomitanti (citta-viprayukta-samskara),
• Tre fattori incondizionati (asamskrta-dharma): i due tipi di nirodha e lo spazio.
Il sistema Sarvāstivāda diede origine ad almeno tre sotto scuole: la Vaibhāṣika (Seguaci del Vibhasa), la Sautrāntika (seguaci dei Sutra) e la Mūlasarvāstivāda (Sarvāstivāda fondamentale). I Vaibhāṣika erano Sarvāstivādin kashmiri sostenitori delle teorie espresse nel Mahāvibhāṣa Śāstra (Grande compendio), un commentario al Jñānaprasthāna, (Origine della conoscenza), uno dei sette libri dell’Abhidharma Sarvāstivāda. Di contro, i Sautrāntika, attivi nel Gandhara, rifiutarono l’autorità del Mahāvibhāṣa Śāstra, sostenendo invece la necessità di far riferimento unicamente ai discorsi canonici. L’origine del Mūlasarvāstivāda è tutt’ora incerta; e tuttavia è noto che furono proprio monaci appartenenti a questa scuola a portare in Tibet il lignaggio dell’ordinazione monastica, lignaggio fiorente ancora oggi in tutte le aree di influenza tibetana. Nel sistema tibetano, i sistemi Vaibhāṣika e Sautrāntika sono classificati come scuole ‘Hinayana’, in quanto gli storici tibetani quali Butön Rinchen Drup (1290–1364) ignoravano l’esistenza delle altre diciassette e più scuole del Buddhismo dei Nikāya.
3. Kassapiya (Kassapikā)
La scuola Kassapiya o Kassapikā nacque da una scissione con i sarvāstivāda. Essa prende il nome dal suo fondatore, il monaco Kassapa, il quale fu inviato dall’Imperatore Asoka a diffondere il Dharma nella regione di Himavant (Himalaya). Per questa ragione, A.K. Warder identifica i Kassapiyā con la scuola Haimavata citata nel Samayabhedoparacanacakra di Vasumitra; tuttavia, secondo lo stesso Vasumitra, si trattava di due scuole nettamente distinte. A differenza dei Sarvāstivādin, i Kassapiyā asserivano un’esistenza dei fenomeni passati e futuri nel presente solo parziale; per essi, i fenomeni passati il cui effetto non è ancora maturato esistono nel presente, i fenomeni il cui effetto è già arrivato a maturazione non esistono nel presente; i fenomeni futuri che sono inevitabilmente determinati esistono nel presente, quelli che non sono così determinate non esistono nel presente. Tuttavia, i Kassapiyā asserivano che seppur parzialmente esistenti, i fenomeni passati e futuri non sono attualmente presenti.
4 .Sankantikā (Sankrāntivāda)
Sankantikā o Sankrāntivāda è la «La Dottrina della trasmigrazione». Secondo il Samayabhedoparacanacakra, questa scuola nacque da una scissione con la scuola Suttavāda (Sautrāntika), la quale sosteneva la teoria della trasmigrazione degli aggregati da un mondo all’altro, (ovvero, da una vita all’altra). Invece, i testi della tradizione Pāli affermano che furono proprio i Suttavādin a sperarsi dai Sankatikā; tuttavia, secondo Jiryo Masuda, l’appellativo Sankrantivāda era uno pseudonimo di Suttavāda, dato che i membri di quest’ultima scuola furono convinti assertori della teoria della trasmigrazione (sankranti) degli aggregati psicofisici, a dispetto del fatto che questa singolare teoria non sia riportata in nessun testo canonico o sutta.
5.Suttavāda (Sautrāntika o Dārṣṭāntika)
La scuola Suttavāda (sanscrito: Sautrāntika) nacque nel terzo dell’era cristiana, da una scissione con la scuola Sarvastivāda, su iniziativa del monaco Kumāralāta. Il nome Suttavāda significa «seguaci dei sutra». La scuola fu attiva nell’area del Gandhara (Pakistan). Secondo i testi della tradizione Pali, i suttavādin si originarono dai Sankantikā, mentre per Vasumitra, era vero il contrario. I suttavādin erano oppositori della teoria della realtà dei fenomeni nei tre tempi e rifiutavano l’autorità dell’Abhidharma e dei commentari come il Mahāvibhāṣa Śāstra.
6. Vātsīputrīya
Il Vātsīputrīya fu un gruppo monastico distaccatosi dalla scuola Sarvāstivāda. L’appellativo Vātsīputrīya “I Seguaci di Vatsyaputra”, deriva dal nome del leggendario fondatore, l’arahant Vatsyaputra (del paese dei Vatsa), o in alternativa da Vātsīputra (Figlio di Vātsī ), dal nome della madre del fondatore. La scuola Vātsīputrīya si formò, come del resto tutte le atre, nel periodo compreso fra la fine del secondo Concilio di Veisali, (386 a.C. ) e l’inizio del terzo concilio di Pataliputra ( 250 a.C. circa). I territori di influenza dei Vātsīputrīya furono le città di Sarnath e Kosambi; i Saṃmitīya furono particolarmente numerosi nel Gujarat, a Mathura e nel Sindh ( Pakistan). Secondo il noto pellegrino cinese Xuanzang (Hsüan-tsang), il quale visitò l’India nel Settimo Secolo d.C. ,
“I Saṃmitīya ebbero come precettore il sudra Upali, vestono abiti fatti da 21 o 25 pezze, parlano l’aprabhramsa e come simbolo hanno una foglia di Palma Gialla.”
Il Nikayasangraha, (Nilapatadarshana) un testo tantrico redatto a Sri Lanka presumibilmente attorno al quattordicesimo secolo d.C. , sostiene che i Saṃmitīya vestissero abiti color blu o verde scuro ( nila ); tuttavia, altre fonti attribuiscono l’uso di vesti di colore blu ai Mahāsāṃghika, o più precisamente ad una loro sotto scuola detta Lokottaravāda (trascendentalismo).
La principale innovazione dottrinale introdotta dai Vātsīputrīya fu quella relativa alla teoria del pudgala (Pali : puggala) «persona», l’ente che, in accordo ai suoi proponenti, è il soggetto della retribuzione karmica e quindi della rinascita. Tale teoria assunse il nome di Puggalavāda. Il Puggalavāda, (Pudgalavāda in sanscrito) “Personalismo” è una teoria sorta in ambito buddhista nel periodo precedente il terzo Concilio Buddhista (III a.C). Tema centrale della teoria Puggalavāda è l’idea secondo la quale, pur non esistendo alcun sé sostanziale, vi sia un’entità, definita puggala o persona, depositaria del karma e dei sui frutti, i quali verrebbero sperimentati, nel corso delle successive esistenze, proprio dal puggala. Secondo gli ideatori di questa teoria, il puggala è ciò che sperimenta i frutti delle azioni compiute in questa esistenza in quelle successive. La teoria del Puggala, considerata eretica da tutte le altre scuole buddhiste, ha la funzione, secondo i suoi assertori, di dimostrare la validità delle dottrine del karma e della rinascita in assenza di un Atman (anima). Per i Pudgalavādin, il puggala non è né un fenomeno condizionato (samkhata) né tantomeno un fenomeno incondizionato (asankhata) come il Nibbana, ma una mera designazione (prajiñapti). Per questa ragione, il puggala non è né identifico agli aggregati né tantomeno qualcosa di totalmente disgiunto da essi. Non essendo né identico né totalmente differente dagli aggregati, è definito come ineffabile, indefinibile, inconcepibile (avyākata). Va da sé che l’idea che esista una terza opzione fra i fenomeni condizionati e quelli incondizionati fu rigettata dai Theravādin, come dimostrato nel celebre dibattito fra gli stessi Theravādin e i Vātsīputrīya di cui si ha un resoconto nel Kathāvattu, (Le controversie), il quinto libro dell’Abhidhamma.
L’origine della teoria del Puggala
Secondo diversi studiosi contemporanei, quali Richard Gombrich, la teoria del Puggala avrebbe avuto origine da un’interpretazione oltremodo letterale del termine puggala e da una differenziazione puramente dogmatica fra il “fardello” (gli aggregati) e il “portatore del fardello” (la persona – puggala) di cui si fa accenno nel Bhārasutta. Contrariamente all’uso fattone nelle Upanisad vediche, nei discorsi del Buddha, il termine puggala o purisapuggala è utilizzato in maniera convenzionale, in una modalità priva di qualunque connotazione metafisica, contrariamente all’uso fattone nelle Upanisad vediche. Il letteralismo, unito a un atteggiamento eccessivamente rigido e dogmatico verso le parole del Maestro, furono alla base di molte delle teorie sviluppatesi nei secoli successivi alla morte del Buddha Storico In un nota al Samayabhedoparacanacakra di Vasumitra, Jiryo Masuda scrive:
“Una delle dottrine salienti del Buddhismo è la teoria del non-ego. Questa teoria presenta diverse difficoltà logiche. Se non esiste alcun io, come può la teoria della rinascita, la quale è un’altra importante dottrina del Buddhismo, trovare una giustificazione?
I Sarvāstivādin ed altri hanno affermato che la mente (citta) e i fattori mentali ( cetasika dharma) periscono istantaneamente. Stando così le cose, cosa è in grado di preservare le esperienze mentali? Questa domanda sembra essere stata oggetto di molta attenzione da parte dei primi pensatori buddhisti.
A quanto ci dicono gli annali di Hsuan Chwang, pare che l’Arahat Gopā, un contemporaneo di Devasarman, abbia teorizzato l’esistenza dell’Ātman. Sfortunatamente, non possiamo conoscere con esattezza le teorie dell’Arahat Gopa, in quanto la sua opera non è più reperibile né in cinese né in tibetano. Tuttavia, sembra essere stato un precursore dei Vātsīputriya e dei Sautrāntika nel riconoscere l’esistenza di un certo tipo di io. I Vātsīputrīya postularono l’esistenza di un certo tipo di io probabilmente al fine di venire in contro alle difficoltà sopracitate, e tuttavia, la loro nozione di io è totalmente differente da quella dei Samkhya, dei Vaisesika e di altri sistemi bramanici, nonché dal “Puggala Mondano” dei Sarvāstivādin. Sembra infatti che essi abbiano suddiviso le teoria sull’atman, antiche e contemporanee in due classi:
1. le teorie che affermano l’identicità del pudgala rispetto agli aggregati e 2. Le teorie che affermano che il pudgala sia differente dagli aggregati. Nel negare l’esistenza del pudgala incluso in queste due categorie, essi hanno ideato una loro categoria di pudgala, definita da loro il pudgala che non è né identico agli aggregati né differente da essi. Quali sono, quindi, gli attributi di un tale pudgala? In merito a questa domanda, sembra che essi abbiano assunto una visione agnostica. Ciò è deducibile dal loro postulato sui cinque tipi di esistenza: i tre dharma compositi, i dharma non compositi e i dharma inesplicabili. Il cosiddetto pudgala dei Vātsīputrīya. Dobbiamo ricordare che i Vātsīputriya furono accusati di eresia dai Sarvāstivādin e da altri per aver affermato l’esistenza di un certo tipo di Io. Ma non possiamo ignorare il fatto che il loro pensiero contiene il primo germoglio dello sviluppo della teoria sull’Ālayavijñāna del tardo Vijñānavāda. Anche se il Vijñāptimatrasiddhi-sastra ha provato a confutare il punto di vista dei Vātsīputrīya, mi sembra che la teoria Yogacara sia molto in debito verso le idee dei Vātsīputrīya ed anche verso idee similari dei Sautrāntika”.
Letteratura
Pare che in origine i Vātsīputrīya possedessero un proprio Canone, purtroppo andato perduto. Sono giunti fino a noi solamente quattro trattati, nella traduzione cinese e contenuti nel Tipitaka Taisho, il Canone Buddhista cinese:
- Tridharmakasastra (Trattato sui Tre Dharma),
- Tridharmaka ( I tre Dharma),
- Sammatiya-nikaya-sastra ( Trattato della Scuola Sammitiya),
- Vinayadvavimsati-vidyasastra (Trattato sulle Ventidue Stanze Esplicanti il Vinaya) .
Riferimenti scritturali nel Canone Buddhista
I principali riferimenti scritturali canonici citati dai Pudgalavādin a sostegno alle proprie tesi sono il Bhārasutta (SN 22) e l’Attakārī Suttam (AN. 6:38).
Le tre designazioni
La letteratura dei sammitiya-puggalavadin elenca tre tipi di designazione:
1. Il Puggala designato attraverso la base (asraya-prajiñapta-pudgala).
La base è costituita dai fattori di composizione (sankhara). Secondo questa dottrina, la relazione fra il puggala e la base designazione è paragonabile a quella fra la fiamma e il combustibile. Nella similitudine, gli aggregati sono rappresentati dal combustibile, il puggala dalla fiamma.
Le altre scuole di pensiero buddhiste identificano il puggala convenzionale ( la persona pura e semplice) con gli aggregati, ma tuttavia, secondo i Pudgalavādin, ciò costituirebbe una visione errata, in quanto alla morte, la dissoluzione degli aggregati, (in particolar modo il corpo) provocherebbe la simultanea dissoluzione del puggala, portando così ad una visione nichilista che negherebbe le dottrine della rinascita e della retribuzione degli atti nelle vite successive.
2.Il Puggala designato dalla trasmigrazione (sankrama-prajiñapta-pudgala).
Per i Personalisti, la trasmigrazione è la continuità della persona nei tre tempi, passato , presente e futuro. È sulla base di questa designazione che è possibile identificare l’Essere nella sua continuità da un’esistenza all’atra. Questa dottrina rappresenta l’espediente attraverso cui i Pudgalavādin tentarono di confutare l’apparente contraddizione fra l’idea della continuità personale e l’assenza di un sé o anima. Il principio della ‘designazione per via della trasmigrazione’ è una posizione mediana che afferma la continuità della persona senza contraddire il principio fondamentale del non sé .
Corollario di questa seconda forma di designazione è la dottrina dello stato di esistenza intermedio (antarābhava) che fungerebbe da collegamento fra la vita presente e quella immediatamente successiva.
3.Il Puggala designato dalla cessazione (nirodha-prajiñapta-pudgala).
La cessazione è l’estinzione dei cinque aggregati soggetti all’attaccamento e delle afflizioni. Secondo questa dottrina, non si può dire che un Buddha o un arahant esista dopo la morte, né che non esista, né entrambe le opzioni ( esiste e non esiste) né la negazione di entrambe ( né esiste né non esiste). [1] La prima designazione definisce il puggala come una mera designazione sulla base degli aggregati psicofisici; la seconda designazione giustifica la dottrina della continuità esistenziale della persona nei tre tempi, mentre l’ultima contrasta la concezione quasi nichilista dell’estinzione assoluta.
Lo stato intermedio (antarābhava) e la non distruzione (avipranasa)
Due postulati dottrinali caratteristici dei pudgalavādin sono il perdurare (lett. ‘non distruzione’, avipraṇaśa) del karma non maturato e di uno stato d’esistenza intermedio (antarābhava) fra la vita attuale e quella successiva. La perduranza (avipranasa) del karma è la base per la retribuzione degli atti eticamente sensibili; questa teoria, aveva, nell’ottica dei suoi ideatori, la funzione di prevenire il rischio di cadere in posizioni nichiliste, rischio dettato da un’interpretazione radicale della dottrina della vacuità di esistenza inerente di tutte le cose. Per i pudgalavādin, vacuità non significa nichilismo. Il concetto di esistenza intermedia (antarābhava) spiega come il puggala trasmigri da una vita all’altra nonostante la disgregazione della base d’imputazione dell’esistenza – gli aggregati psicofisici di corpo, sensazione, percezione, attività intenzionali e coscienza- al momento del trapasso.
7.Saṃmitīya
8.Bhadrayanika
9 Dhammuttariya
10. Channdagarika
Dai Vātsīputrīya si svilupparono altre quattro sotto-scuole, i Saṃmitīya, i Bhadrayanika, i Dhammuttariya e i Channdagarika. le sotto scuole devono il loro nome ai rispettivi fondatori; i Saṃmitīya, “Allievi di Sammita”, “Giusta Misura”, dal monaco Sammita; i Bhadrayanika “Quelli del Veicolo Fortunato” da Bhadrayana, dall’arahant Bhadra; i Dhammuttariya dal maestro di disciplina Dharmottara, “Elevazione del Dharma”; infine, i Sandagiriya (Sandagarika o Channagarika) , dal luogo di residenza del loro fondatore, una foresta (sanda) situata su di un promontorio (giri). Dai Saṃmitīya si formarono due correnti: quella degli Avantaka, “Quelli del paese di Avanti”, e quella dei Kurukula, il “Clan dei Kuru”, dall’omonima regione. Queste sotto scuole, in particolare quella dei Saṃmitīya, svilupparono ulteriormente l’impianto filosofico della dottrina personalista, elaborando una serie di tesi, finalizzate a confutare le critiche mosse alla teoria del puggala dalle altre scuole buddhiste, al punto da superare, per influenza e popolarità, gli stessi Vātsīputrīya.
11.Dhammaguttika (Dharmaguptaka)
La scuola Dhammaguttika (sanscrito: Dharmaguptaka o Dharmaguptika) ebbe origine da una scissione con la scuola Mahīmśāsaka attorno al 300 a.C. nel nord ovest dell’India, nell’area del Gandhāra; in seguito, la presenza dei Dhammaguttika si estese in Asia centrale, in Afghanistan e Iran fino a raggiungere la Cina, dove divenne una delle scuole più influenti, grazie anche all’opera di traduttori come il leggendario Kumarajiva (344–413 d.C.). Questa scuola svolse un ruolo di notevole importanza nella diffusione del Buddhismo al di fuori del subcontinente indiano; di fatto, quello dei Dhammaguttika è a tutt’oggi il principale lignaggio monastico in Cina, Corea e Vietnam. Il nome Dhammaguttika significa «I seguaci di Dharmagupta», dal nome dell’ispiratore di questa scuola. Il nome Dharmagupta è traducibile come «Guardiano (gupta) dell’insegnamento (Dhamma)». Fra gli studiosi del primo Buddhismo indiano c’è chi, come Sujato, ipotizza che Dharmagupta non fosse stato altro che il Dhammarakkhita citato nei testi pali come il Mahāvamsa. Di fatto, i termini «gupta» e «rakkhita» sono sinonimi. Sujato, citando Frauwallner e Przylusk, avanza la suggestiva tesi secondo la quale Dhammagupta non sarebbe stato altro che il monaco citato nel testi in lingua Pāli con il nome di Yonaka Dhammarakkhita.
L’appellativo ‘Yonaka’ (Ionici) era usato per indicare gli Ioni, genti di origine greco macedone originarie della costa ionica, insediatesi proprio nella regione del Gandhāra, vero e proprio feudo dei Dhammaguttika. Secondo il Mahāvamsa, il monaco Yonaka Dhammarakkhita fu originario di una città nota con il nome di Alasandha, identificabile con Alessandria Eschate, oppure con Alessandria sull’Oxus, situate entrambe nella regione di Battria, nell’attuale Afghanistan.
Il fatto che lo Yonaka Dhammarakkhita venga citato nei testi della tradizione Theravāda suggerisce che molto probabilmente la scuola Dhammaguttika fosse strettamente imparentata con i Vibhajjavādin, i precursori della scuola Theravāda singalese. D’altro canto, Vasumitra asserisce che l’ispiratore della scuola Dhammguttika fu un monaco di nome Moggallāna; non è tuttavia chiaro se si tratti del (Mahā)Mogallāna discepolo diretto del Buddha oppure di Mogalliputtatissa, il più autorevole monaco Vibhajjavādin del terzo secolo avanti Cristo, autore del Kathāvatthu, nonché promotore delle missioni all’estero patrocinate dall’Imperatore Asoka, missioni di cui lo stesso Yonaka Dhammarakkhita fu uno dei protagonisti. [1] Singolare a questo proposito è l’atteggiamento nei confronti di questa scuola dall’autore del Kathāvatthu: questi, pur enumerando la scuola Dhammaguttika tra le diciassette scuole «eretiche» ( parole sue), non descrive nel proprio manoscritto alcun dibattito con quest’ultima, né tantomeno alcuna confutazione dello loro dottrine. Tale atteggiamento insolitamente benevolo nei confronti di una scuola rivale la dice lunga sul rapporto di vicinanza intercorso fra queste due scuole. Sempre secondo Sujato, la scuola Theravāda rappresenterebbe la diramazione meridionale della Vibhajjavāda, mentre la Dhammaguttika delle origini ne sarebbe una diramazione nordoccidentale. A questo proposito, è di straordinaria importanza il fatto che il lignaggio monastico femminile dei Dhammaguttika — l’unico degli antichi lignaggi monastici femminili indiani sopravvissuto fino ai giorni nostri— sia stato introdotto in Cina da monache provenienti dallo Sri Lanka, nel 429 dopo Cristo. [2] Le lingue utilizzate dai Dhammaguttika furono il gāndhārī e il sanscrito; Il canone dei Dhammaguttika, il quale conteneva anche materiali di indubbia impronta Mahāyāna, è andato perduto nelle lingue originali; ne sopravvivono le traduzioni in cinese classico incluse nel Canone Buddhista in lingua cinese. Il colore degli abiti monastici indossati dai suoi aderenti fu il bruno.
12. Mahīmśāsaka
La scuola Mahīmśāsaka (sanscrito: Mahīśāsaka) fu una delle scuole formatesi dallo Sthaviranikaya; secondo alcuni studiosi, essa sarebbe stata fondata dal monaco dissidente Purāṇa, il quale rifiutò di riconoscere come autentici i discorsi e le regole dichiarati autentici durante il primo Concilio Buddhista di Rajagha sotto la guida di Mahakassapa. Il nome Mahīśāsaka deriva da Śaśaka, ‘maestro’, ‘governatore’ , ‘Rettore delle genti’; tuttavia, secondo Baruah [1], il nome deriverebbe dalla città di Mahisamandal o Mahismati, l’odierna Maheswara, sulle rive del fiume Marmada,(Narmada) nello stato del Madhya Pradesh; per A.K. Warder, il luogo di origine fu il paese di Mahisa [2]. Ritrovamenti archeologici attestano la presenza dei Mahīśāsaka a Nāgārjunakoṇḍā, in Andra Pradesh, nell’India del sud e a Taksasila, nell’odierno Pakistan.[3] Secondo il Dīpavamsa, i Mahīśāsaka sarebbe nati da uno scisma con i Theravadin nel secondo secolo dopo la morte del Buddha; tuttavia, secondo il Samayabedho-paracana-cakra, essi avrebbero avuto origine dalla scuola Sarvastivada un secolo più tardi. Sempre secondo il testo di Vasumitra, dai Mahīśāsaka di sarebbero poi originati i Dharmaguptaka. A.K. Warder sostiene inoltre che la scuola Mahīśāsaka si diffuse a sud fino all’isola di Ceylon, dove venne poi riassorbita nel Theravāda singalese. Infine, secondo L. de la Vallee Poussin[4], dai Vibhajjhavadin, oppositori delle teorie dei Sarvastivadin, si originarono due sotto scuole: a Ceylon, quella degli Sthaviravadin (I proto Theravada), e in india quella dei Mahīmśāsaka. i Mahīśāsaka si distinguevano dal fatto di indossare vesti di colore blu. L’unico testo di questa scuola sopravvissuto fino ai giorni nostri è una traduzione in cinese del Vinaya Pitaka incluso nel Canone Cinese (Taishō Tripiṭaka). Le informazioni sulle dottrine dei Mahīśāsaka provengono in larga misura dai resoconti di altre scuole, come il Dīpavamsa e il Samayabedhoparacanacakra. Sulla base di questi testi, si distinguono due periodi di evoluzione dei Mahīśāsaka, uno più antico, e uno successivo, con caratteristiche dottrinali vicine al Mahayana.
13. Mahāsāṃghika
La scuola Mahāsāṃghika (‘Quelli della Grande Assemblea’) ebbe origine nel quarto secolo avanti Cristo, in contrapposizione alla tendenza ortodossa prevalente in quell’epoca nella comunità monastica buddhista. La genesi e le successive evoluzioni di questa scuola rimangono a tutt’oggi incerte, tanto più che i testi appartenenti alle diverse tradizioni offrono resoconti molto differenti tra loro. Secondo il Cullavagga, (Vinaya II) del Canone ali, un secolo dopo il Primo Concilio di Rajagaha, un gruppo di monaci nativi della Repubblica dei Vajji ( Il primo stato repubblicano e democratico della storia) e residenti a Kosambi, tentò di introdurre alcune modifiche alle regole monastiche. Questo tentativo di ammorbidire le regole monastiche suscitò le critiche di uno dei monaci anziani più venerati dell’epoca, Yasa Kākandakaputta, il quale per tutta risposta venne sanzionato dai monaci vajjia con l’espulsione dal sangha, reo, a loro dire, di essersi comportato in maniera non conforme alle regole disciplinari. Yasa lasciò allora Kosambī e, dopo aver convocato i monaci di Pāvā a ovest e di Avanti a sud, cercò il monaco Sambhūta Sānavāsi. Su suo consiglio, si rivolsero a Revata e insieme consultarono Sabbakāmi. Nel Concilio che seguì i dieci punti furono dichiarati non validi. Barua riassume così gli eventi che seguirono: «Il Dipavamsa approfondisce ulteriormente il racconto. I monaci Vajjia di Vaisali non accettarono la risoluzione del Concilio. Essi tennero un Concilio separato, chiamato Mahasamgiti, senza fare alcuna discriminazione tra arahant e non arahant. Considerato l’alto numero di presenze al Mahasamgiti, indicato in 10.000 monaci, sembra probabile che non sia stata fatta alcuna discriminazione. In questo Concilio, si suppone che i monaci Vaijii abbiano agito secondo i loro desideri. Essi alterarono il contenuto dei sutra e del Vinaya nei cinque Nikaya, rimuovendone alcuni e interpolandone di nuovi. Si aggiunge che rifiutarono di accettare l’autenticità di testi come il Parivara, Patisambidamagga, Niddesa, alcuni Jataka e sei testi dell’Abhidhamma. Ma è difficile supporre che questi testi fossero stati realmente redatti a quell’epoca.»
Similmente, secondo il Mahāvaṃsa: «Quei monaci dissidenti, in tutto diecimila, che erano stati censurati dai Thera del secondo concilio fondarono la scuola detta Mahāsāṃghika; da questa ebbe origine la Gokulikā e l’Ekavyohārikā. Dai Gokulikā nacquero la Pannattivāda e la Bahulikā, e da questa la Cetiyavāda; con la Mahāsāṃghika in tutto sei scuole. Inoltre, dai Therāvdin (gli anziani) nacquero queste due scuole: quella dei monaci Mahīmśāsaka e quella dei Vajjiputtaka. Dai Vajjiputtaka nacquero i dhammuttariya, i Bhaddayānika, i Chandāgārika, e i Sammiti,. Dai monaci Mahīmśāsaka nacquero inoltre questi due: i Sabbatthavādin e i dhammaguttika; dai Sabbatthavādin nacquero i Kassapiya e da questi i Sankatika; dai Sankatika nacquero i Suttavādin. Insieme alla scuola Theravāda queste sono le dodici che, con le sei anzidette, fanno diciotto. Nei successivi cento anni sorsero altre diciassette scuole, ed altra ancora ne sorsero in seguito: La Hemavata, la Rājagirika, la Siddhatthaka, quella dei monaci Pubbaseliya, l’ Aparaseliya e la Vajiriya; queste sei limitatamente al Jambudipa (India). La Dhammaruci e la Sagaliya limitatamente all’isola di Lanka.»
La versione dei Sarvāstivāda
Tuttavia, secondo le fonti Sarvāstivāda, un trentina di anni dopo quel primo Concilio, (ovvero 136 anni dopo la morte del Buddha) i Mahāsāṃghika, tennero un loro concilio incentrato sulle cinque tesi di Mahādeva, una figura estremamente controversa di cui parleremo più avanti; in quel contesto, per la prima volta vennero messe in discussione le qualità dell’arahant. Le cinque tesi, in accordo ai testi Theravāda e Sarvāstivāda erano:
1. Un Arahant può essere soggetto a sogni erotici accompagnati da polluzioni notturne;
2. Un Arahant non è ha la piena conoscenza in riguardo ad argomenti non dharmici;
3. Un Arahant può essere soggetto al dubbio in riguardo a cose diverse dal Dharma;
4. Non è possibile ottenere la condizione di Arahant senza l’ausilio di un maestro esterno;
5. Un Arahant potrebbe intraprendere il nobile sentiero sulla base di stati d’animo negativi come la tristezza o la pena.
Secondo il Mahāvibhāṣā, (un testo dei Sarvāstivāda, oppositori dei Mahasanghika) , le cinque tesi non furono altro che un espediente elaborato dallo stesso Mahādeva, autoproclamatosi arahant, per giustificare le proprie mancanze agli occhi dei propri discepoli. Secondo questo testo, Mahādeva presentò le proprie tesi al monastero di Kukkuṭārāma, seduto sul seggio spettante al monaco più anziano. Tuttavia, i monaci presenti rigettarono le tesi esposte da Mahādeva; si generò così un’aspra contesa fra quei monaci e i seguaci di Mahādeva, nella quale venne coinvolto persino il Re (probabilmente, si trattava di Kalaśoka); la contesa venne risolta con un referendum, in accordo alla giurisprudenza monastica. Dato il vasto sostegno di cui poteva godere, Mahādeva vinse il referendum e i monaci sconfitti abbandonarono Pāṭaliputta trasferendosi in Kashmir, dove fondarono la scuola Sarvāstivāda. Tuttavia, secondo Sujato, questa ricostruzione dei fatti sarebbe un’invenzione dei Sarvāstivāda stessi per giustificare il loro allontanamento dal Magadha, centro del potere politico della dinastia Maurya di cui Asoka fu l’esponente più noto.
Su Mahādeva
Quella di Mahādeva è una delle figure più enigmatiche e controverse della storia del Buddhismo. Secondo i testi Theravāda e Sarvāstivāda, egli si sarebbe macchiato di ben tre dei cinque crimini causa di perdizione immediata (ānantarika): Uccidere il proprio padre, la propria madre e un arahant; interessante notare che fra le accuse mosse contro di lui non vi sia quella di scisma (sanghabheda). Come evidenziato da Sujato,
«Mahādeva aveva commesso tre azioni ānantarika, che gli rendevano impossibile di essere ordinato come bhikkhu. Il testo è ben consapevole di questo, e per questo si preoccupa di far notare che il suo maestro di ordinazione non lo aveva interrogato attentamente, come è richiesto dal Vinaya. Pertanto la sua ordinazione non fu valida e non avrebbe potuto causare uno scisma».
Come abbiamo visto, il Samayabhedoparacana.cakra sostiene che vi furono di due monaci di nome Mahādeva: Il primo, l’autore delle cinque tesi, e un secondo nato nella regione di Andhra 200 anni dopo la morte del Buddha, anch’egli membro dei Mahāsāṃghika sostenitore delle cinque tesi, e istigatore, per dirla con Lamotte, di ulteriori scissioni. La storicità di questi due personaggi è altamente dibattuta, e non vi è un consenso unanime né tra i testi delle antiche scuole né tra gli studiosi moderni. Tutto ciò non fa che aumentare la confusione attorno ai Mahāsāṃghika e alla figura di Mahādeva.
Il trascendentalismo dei Mahāsāṃghika
Uno dei tratti caratteristici dei Mahāsāṃghika fu quello di ritenere il Buddha un entità trascendente, nel corpo, nella parola e ovviamente, nella mente. Per i Mahāsāṃghika, le vicende terrene del Buddha non furono altro che una proiezione concreta di un principio mistico eterno, un mezzo abile per veicolare il messaggio del Dharma. Per i Kukkuṭika (vedi sotto), il Buddha utilizzò due linguaggi: uno convenzionale, con la quale egli discuteva di argomenti relativi alla vita quotidiana, e uno trascendente, legato alla trasmissione del Dharma. Sempre secondo questa scuole, egli era onnisciente, capace di apprendere qualunque fenomeno (sarva dharma) in un singolo istante di pensiero, nonché dotato di conoscenza della reale natura dei fenomeni appresi. L’idea di un doppio linguaggio fu alla base della teoria delle due verità — relativa e assoluta — mentre la concezione trascendentalista del corpo del Buddha diede probabilmente l’incipit allo sviluppo della dottrina mahayanica sui tre corpi. (Trikaya).
14.Kukkuṭika,
15.Ekavyavahārika
16. Lokottaravada
17.Prajñaptivādi
18. Bahuśrutīya
Nel corso dei secoli successivi la scuola Mahāsāṃghika si suddivise, nel corso dei secoli, in almeno otto correnti. Secondo il Samayabhedo-paracana-cakkra:
«Questa è la tradizione che mi è stata tramandata di bocca in bocca: Erano trascorsi cento anni da quando il Venerabile Buddha entrò nel parinirvāna. Era un’epoca tutt’altro che santa, come se il sole fosse tramontato da molto tempo. A Kusumapura, nel regno di Magadha, il re Asoka regnava su Jambudvipa (India), sotto un ombrello bianco (simbolo della sua sovranità). Il suo dominio si estendeva agli dèi e agli esseri umani. Durante il suo regno il grande sangha buddhista si divise per la prima volta. Infatti, poiché le quattro comunità non erano d’accordo sull’interpretazione delle Cinque Proposizioni di Mahādeva, il sangha buddhista si divise in due scuole: i Mahāsāṃghika e gli Sthavira. Le quattro comunità erano: 1) la comunità Nāga, 2) la comunità dei barbari della regione di confine (Pratyantika), 3) la comunità dei dotti (Bahuśrutīya) e 4) la comunità dei venerabili (Sthavira). Le cinque proposizioni sono spiegate nel verso seguente: Gli [Arhat] sono tentati dagli altri. [Sono ancora nell’ignoranza. Dubitano ancora. Sono resi consapevoli della loro illuminazione da altri (cioè dai loro maestri). Il sentiero [nobile] si produce attraverso l’espressione vocale [della sofferenza]. Questo è il vero insegnamento del Buddha. In seguito, durante il secondo secolo [dopo il parinirvāna del Buddha], dai Mahāsāṃghika nacquero tre scuole: 1) gli Ekavyāvahārika, 2) i Lokottaravāda e 3) i Kukkuṭika. Successivamente, nel corso del secondo secolo, un’altra scuola, chiamata Bahuśrutīya, nacque dai Mahāsāṃghika. E sempre durante il secondo secolo, sorse un’altra scuola chiamata Prajñaptivāda, afferente ai Mahāsāṃghika. Alla fine del secondo secolo, nacque un monaco eretico il quale abbandonò la dottrina eretica e si convertì al Giusto Dharma. Anche lui si chiamava Mahādeva. Egli si unì ai Mahāsāṃghika e ricevette l’ordinazione finale (upasampada) in quello stesso ordine. Era colto (Bahuśruta) e diligente (vīrya). Dimorò sulla Montagna del Caitya (stupa), dove discusse ancora una volta in dettaglio le Cinque Proposizioni con i monaci della sua scuola. A seguito della controversia che ne seguì, la scuola Mahāsāṃghika si divise in tre: 1) i Caitika, 2) gli Aparaśaila e 3) gli Uttaraśaila. Ci furono quindi quattro o cinque scismi nella scuola Mahāsāṃghika La scuola originaria e i suoi scismi si sommano alle seguenti nove scuole: 1) i Mahāsāṃghika, 2) gli Ekavyāvahārika, 3) i Lokottaravāda, 4) i Kukkuṭika, 5) i Bahuśrutīya, 6) i Prajñaptivādin, 7) i Caitika, 8) gli Aparaaśaila, e 9) gli Uttaraśaila.»
Secondo Paramārtha, i Kukkuṭika ( Quelli del Kukkuttarama) consideravano come autentici e definitivi solo i testi dell’Abhidharma, e sia gli Ekavyavahārika (Unica Designazione/asserzione) che i Lokottaravādin (Trascendentalisti) consideravano il Buddha un’entità trascendentale. Questa scuola teorizzava la trascendenza del Buddha, visto non più come un ordinario essere umano, ma bensì come una manifestazione sul piano concreto di un principio metafisico universale e atemporale detto Dharmakaya (corpo della legge) . I Lokottaravādin si stabilirono nei territori a nord della valle dell’Indo, ed in particolar modo, nella valle di Bamiyan, nell’attuale Afghanistan. Furono proprio i seguaci di questa scuola ad erigere i famosi Buddha gemelli di Bamiyan tragicamente distrutti dai Talebani nel 2001. Tuttavia, mentre i primi asserivano che mondano e trascendente fossero solo designazioni nominali (prajñapti), per i Lokottaravadin, i fenomeni trascendenti possiedono un’esistenza reale. Il testo più noto di questa scuola è il Mahāvastu, un racconto ampiamente agiografico della vita del Buddha assai popolare. Le origini della scuola Bahuśrutīya (I molto edotti) si perdono nel mito: un monaco di nome Yājñavalkya, allievo diretto del Buddha, risvegliatosi dopo duecento anni di meditazione profonda, sconvolto dalla superficialità degli insegnamenti propagati dai Mahāsāṃghika, iniziò a predicare ad alcuni monaci di questa scuola, classificando gli insegnamenti in superficiali o convenzionali e profondi o definitivi; i sui seguaci fondarono così la scuola Bahuśrutīya, letteralmente ‘quelli che hanno appreso molto’. Il Satyasiddhiśāstra, un testo di questa scuola, è considerato l’anello di congiunzione tra le scuole dei nikāya e il Mahāyāna. Similmente, la scuola Prajñaptivāda (nominalismo) ebbe origine dalla predicazione di Mahākātyāyana, il quale duecento anni dopo la morte del Buddha, riemergendo dal lago Anavatapta, raggiunse il Magadha ed entrò a far parte della scuola Mahāsāṃghika; egli tracciò una distinzione dei sacri insegnamenti dei Tripiṭaka, chiarendo quali di essi fossero stati pronunciati dal Buddha a livello di concetti validi a livello nominale (prajñapti), quale fosse l’insegnamento reale (paramārtha) del Buddha, cosa fosse la verità assoluta (paramārthasatya), cosa la verità convenzionale (saṃvṛtisatya) e cosa la causalità (hetuphala).
Caitika, Aparaśaila e l’Uttaraśaila,Rajagirika,Siddharthika,Vetulyaka
La scuola Caitika si originò nel sud dell’India, nella regione di Āndhra Pradesh; secondo A.K. Warder, questa scuola nacque attorno al terzo secolo a.C. ; da essa emersero successivamente altre due scuole, la Aparaśaila e l’Uttaraśaila. Queste tre scuole sono conosciute collettivamente con il nome di Āndhaka. Il Kathāvatthu ( Libro delle controversie) riporta numerosi punti di attrito fra gli Āndhaka e i Theravādin. Infine, da queste scuole si generarono altre tre sotto scuole: La Rajagirika, quella dei Siddharthika e quella della Vetulyaka ( Pali: Vetullavāda, Dottrina Estesa) citata anche nei testi theravāda come il Mahāvaṃsa, e che Buddhaghosa identifica con il proto Mahāyāna di Nāgārjuna. Il Samantapasadika, un commentario scritto dallo stesso Buddhaghosa, cita, fra i testi delle scuole “eretiche” (non theravāda), il Vedalla Piṭaka, una raccolta di sūtra Mahāyāna come il Prajñāpāramitā Sūtra, che, secondo i Mahāsāṃghika, sarebbe stato ottenuto dal Regno dei nāga.
III. TESI DOTTRINALI
Di seguito, le proposizioni dottrinali di ciascuna scuola come riportate nel samayabhedoparacanachakra
Queste sono le posizioni dottrinarie dei Sarvastivada:
1. Secondo i Sarvāstivādin, tutte le cose che esistono sono comprese in due categorie: 1) nome (nāma) e 2) forma (rūpa). Anche il passato e il futuro hanno un’esistenza sostanziale.
2. Tutti i dharma sono conoscibili (jñeya), apprendibili (vijñeya) e comprensibili (abhijñeya).
3. Le caratteristiche (laksana) di nascita (jāti), vecchiaia (jarā), durata (sthiti) e impermanenza non sono associate alla mente (cittaviprayukta). Sono inclusi nel gruppo delle formazioni (saṅskhārakhanda).
4. Esistono tre tipi di dharma condizionati e tre tipi di dharma incondizionati. Le tre caratteristiche dei dharma condizionati, [nascita, mutamento e distruzione,] esistono ciascuna sostanzialmente (dravya). Tre [delle quattro] verità, [sofferenza, la sua origine e il sentiero che porta alla sua cessazione,] sono condizionate; una verità, [la cessazione] è incondizionata.
5. Le quattro nobili verità vengono comprese (abhisamaya) gradualmente.
6. Sulla base delle due meditazioni (samādhi) della vacuità e del non desiderio (apratihita), si può diventare stabili nella retta condotta. Attraverso la meditazione sul desiderio [i quattro aspetti della verità della sofferenza] (Paramårtha: cose associate al regno del desiderio), si può diventare stabili nella retta condotta. Chi si è già stabilito nella retta condotta è chiamato “orientato” (pratipanna), mentre rimane nei primi quindici momenti [del sentiero della visione] e “dimora nella fruizione” (phalasthita) nel sedicesimo momento (cioè il primo stadio del sentiero della coltivazione, bhāvanāmārga).
7. Il più alto dharma mondano (laukikāgradharma) è un [istante di] mente. Ci sono tre tipi di dharma mondani più elevati. Non c’è assolutamente alcun regresso dal dharma mondano più elevato.
8. Un entrante nella corrente non retrocede [a uno stadio inferiore], ma l’arhat può retrocedere [dall’arhatship].
9. Non tutti gli arhat raggiungono la consapevolezza di non nascere più [di passioni future] (anutpådajñåna).
10. Anche i mondani (puthujjhana) possono abbandonare il desiderio (kāma) e l’ira (vyāpāda).
11. Anche gli eretici (tirthika) possono ottenere i cinque poteri soprannaturali (abhijñå).
12. Alcuni dèi (devas) (coloro che risiedono nel cielo dei sei desideri) osservano la castità (brahmacaryå).
13. I [sette] fattori dell’illuminazione possono essere ottenuti nelle sette contemplazioni (samāpatti) (cioè le quattro contemplazioni del regno della forma e i primi tre stadi del regno della non-forma), ma non in nessun’altra contemplazione.
14. Tutte le meditazioni (dhyāna) sono interamente comprese nelle [quattro] dimore della consapevolezza.
15. Senza affidarsi alla meditazione [profonda], non solo si può ottenere una dimora stabile nella retta condotta, ma anche lo stato di arahant.
16. Finché il corpo risiede nei regni della forma (rūpadhātu) e della non-forma (ārūpyadhātu), si può ottenere una dimora stabile nella retta condotta, ma non si può ottenere lo stato di arhat. Quando invece il corpo risiede nel regno del desiderio (kāmadhātu), non solo si può ottenere una dimora stabile nella retta condotta, ma anche lo stato di arhat.
17. Nel continente settentrionale di Kuru nessuno è libero dalla passione (virāga). Nessun arhat nasce lì né tra gli dei inconsapevoli.
18. Le quattro fruizioni della vita religiosa non si ottengono necessariamente in modo graduale. Chi ha già raggiunto una dimora consolidata nella retta condotta può, attraverso il sentiero mondano, ottenere lo stato di ritornante (sakadāgāmin) e di non ritornante (anāgāmin, il terzo stadio).
19. Si può dire che le quattro dimore della consapevolezza includono tutti i dharma.
20. Tutti gli stati latenti dei defilamenti (anusaya) sono attività mentali (caitasika). Sono associati alla mente e hanno un oggetto (sālambana).
21. Tutti gli stati latenti delle afflizioni sono interamente compresi nelle afflizioni manifeste (paryavasthāna), ma non viceversa.
22. La natura propria dei membri della catena dell’origine dipendente è decisamente condizionata (samskrata).
23. Alcuni membri della catena dell’origine dipendente sono funzionanti anche nell’arhat.
24. Nell’arhat c’è una crescita (vardhana) delle azioni meritorie (punnyakarman).
25. Lo stato intermedio di esistenza (antarābhava) esiste solo nel regno del desiderio e nel regno della forma.
26. Il quintuplice gruppo di coscienze (pañcavijñānakāya), la coscienza oculare e così via, è [sempre] accompagnato dalla passione (sarāga) e [non è mai] libero dalla passione (avirāga). Questi [cinque] percepiscono solo i particolari e non concepiscono gli universali.
27. La mente e le attività mentali sono sostanzialmente reali (dravya).
28. La mente e le attività mentali dipendono dagli oggetti (sālambana).
29.Nessuna natura propria nasce in unità con se stessa. La mente non nasce in unità con la mente.
30. Esistono una retta visione mondana e una facoltà mondana di fede.
31. Esistono dharma moralmente indeterminati (avyākata).
32. Per gli arhat non esistono né dharma da apprendere né dharma da non apprendere.
33. Tutti gli arhat ottengono stati di meditazione; possono produrli ma non possono ottenerne la chiara comprensione (abhisamaya).
34. Alcuni arhat ricevono la retribuzione delle azioni passate.
35. Ci sono uomini di mondo che muoiono in uno stato mentale buono (kusalacitta).
36. È impossibile che la vita finisca mentre la mente è in uno stato di concentrazione (samāhitāvasthāna).
37. Il veicolo del Buddha e gli [altri] due veicoli (cioè quello del pratyekabuddha e quello dell’Srāvaka) non differiscono quanto alla liberazione (vimukti) [a cui conducono]. Ma i sentieri dei tre veicoli [che portano alla liberazione] differiscono l’uno dall’altro.
38. La benevolenza (maitri), la compassione (karunā) e così via del Buddha non hanno come oggetto gli esseri viventi. Chi si aggrappa all’esistenza (bhava) del [sé (ātman) negli] esseri viventi non può ottenere la liberazione.
39. Va detto che i bodhisattva sono ancora dei mondani, perché i loro legami (samyojana) non sono stati distrutti. Se non si sono ancora affermati nella retta condotta, non si può dire che abbiano superato (samatikrānta) lo stadio (bhumi) dei mondani.
40. “Essere vivente” (sattva) non è altro che un nome (prajñaptimātra), che si riferisce al continuum [fisico e mentale] (santati) che è oggetto di attaccamento (upādāna).
41. Si dice che tutte le formazioni (samskāra) periscano all’istante.
42. Non c’è assolutamente nulla che trasmigri da un’esistenza precedente a una successiva. Il pudgala (persona), che trasmigra secondo i mondani, non è altro che le varie formazioni (samskāra) operanti durante la vita di una persona. Al momento del nirvana senza residuo (anupadhisesanirodha), non ci sono più aggregati mutevoli (skandha).
43. Esistono meditazioni sovramondane.
44. Anche l’esame (vitarka) [dell’oggetto della meditazione] può essere senza macchia.
45. Le buone [azioni] possono essere causa di rinascita.
46. Nello stato di concentrazione (samāhitāvasthāna) non si pronunciano parole.
47. Il nobile ottuplice sentiero è la vera ruota del Dharma. Non tutte le parole dei Tathāgata fanno girare la ruota del Dharma.
48. Il Buddha non può insegnare tutti i dharma con un sola parola.
49. Alcuni detti del Bhagavat non sono conformi alla verità (ayathārtha).
50. Non tutti i sutra predicati dal Buddha hanno un significato esplicito (nitārtha). Il Buddha stesso ha detto che alcuni sutra non hanno un significato esplicito.
Le tesi distintive dei Kassapiyā furono:
1. se in un arahant gli inquinanti mentali (klesa) sono stati completamente eliminati, allora questi cesseranno di esistere in lui; tuttavia, se così non fosse, la loro sostanza continuerà ad esistere (nel presente e nel futuro).
2. Se i risultati di un’azione sono già maturati, allora cesseranno di esistere; in caso contrario, essi continuano ad esistere ( nel presente, nel futuro).
3. I condizionanti si manifestano per via di cause passate , non per via di cause future.
4. tutti i condizionanti sono momentanei.
5. i Śaiksa-dharma ( pali:sekhiya–dhamma, precetti monastici sul buon comportamento) sono comunque soggetti alla legge di retribuzione degli atti (vipakaphala).
I principali punti dottrinali della scuola Hemavanta:
1. I Bodhisattva sono pur sempre esseri umani ordinari (pṛthagjana).
2. I Bodhisattva non sono soggetti alla passione (rāga) e al piacere (kāma).
3.I seguaci delle altre scuole indiane non buddhiste (tīrthika) non sono in grado di ottenere le cinque realizzazioni (siddhi).
4. Non esistono divinità (deva) che praticano la vita spirituale (brahmacaryāvasthita).
5. Gli Arahant possono essere tentati; sono ancora soggetti all’ignoranza, ai dubbi, possono ottenere la realizzazioni attraverso l’aiuto di altri; il Sentiero è realizzabile tramite un’esclamazione (Un Arahant potrebbe intraprendere il nobile sentiero sulla base di stati d’animo negativi come la tristezza o la pena.)
Le principali teso dei Suttavādin furono:
1. Gli skhanda trasmigrano da un mondo all’altro (da ciò nasce il nome Sankrāntivāda);
2.Non esiste alcuna possibilità di distruggere gli aggregati (ottenimento del nirvana) al di fuori del Nobile [ottuplice] sentiero. Ciò significa che, secondo questa scuola, una persona potrebbe anche riuscire a sopprimere temporaneamente le afflizioni attraverso le sei meditazioni, ma nonostante ciò, non sarebbe in grado di sradicarle completamente tramite di esse.
3.Esistono i mulantikaskandhas (aggregati radice) ed anche gli ekarasaskandha (aggregati di un solo sapore). In merito al terzo punto, Masuda, attingendo dai commentari cinesi, spiega che l’ekarasaskandha (aggregato di un solo sapore) continua ad esistere da tempo immemore senza cambiare la propria natura; si tratta della coscienza sottile la quale è priva di interruzioni e possiede i restanti quattro aggregati. Il termine Mula (originale) in Mulantikasankdha indica esattamente la coscienza sottile citata in precedenza. Questa è l’origine degli esseri senzienti trasmigranti; da questa origine si generano i cinque aggregati di cui parlano anche le altre scuole. I cinque aggregati, i quali hanno un carattere intermittente, si generano da questa radice; da qui il nome Mulantiskandha.
4. Anche l’uomo comune (puthijjhana) possiede il potenziale per diventare un Buddha.
5. Esistono i Paramarthapudgala: cos’è un Paramarthapudgala? È il «il vero ātman, il quale è estremamente sottile e ineffabile». Anche i Vatsiputriya asserivano un’idea dello stesso tenore. Inoltre, contrariamente ai sarvastivādin, i sautrāntika sostenevano una teoria della temporalità secondo la quale solo il momento presente esiste davvero.
Le sette opinioni contrarie e le contro tesi dei pudgalavādin
Il Sammatiya-nikaya-sastra (Trattato della Scuola Saṃmitīya), elenca in maniera particolareggiata le sette opinioni contrarie alle tesi dei pudgalavādin e le articolate contro repliche di quest’ultimi. Di seguito, le sette posizioni contrarie:
Le sette opinioni contrarie:
1. La persona non esiste, perché:
a. esistono solo gli aggregati e le basi sensoriali, e il dukkha, ma non esiste alcuna persona sofferente;
b. la persona non esiste;
c. solo gli ignoranti considerano il corpo come la persona;
d. la realtà della persona e di ciò che riguarda la persona non è provata;
e. la persona è irreale;
2. È impossibile sia che la persona esiste che non esiste, perché:
a. la natura della persona non può essere definita né in relazione ai fenomeni compositi (samkhata) né in relazione all’increato (asankhata);
b. l’esistenza o la non esistenza della persona è una domanda a cui il Buddha non ha dato risposta (aviyakata);
c. l’indeterminatezza della persona in riguardo ai fenomeni compositi e in riguardo all’increato ;
d. la confusione circa la permanenza e la caducità;
e. il fatto di non appartenere né all’esistenza né alla non esistenza.
3. La persona è realmente esistente, perché:
a. è la persona, legata ai cinque aggregati a trasmigrare da una esistenza all’atra;
b. la visione della persona è la retta visione, proprio come è retta visione la visione concernente gli esseri nati spontaneamente (opapatika);
c. l’insegnamento relativo ai Quattro Fondamenti della Consapevolezza affermano che vi è una persona che contempla il corpo, le sensazioni, la mente e i fenomeni;
d. le parole del Buddha ai suoi discepoli in merito al fuoco ha prodotto la credenza secondo la quale esiste una persona che dirige l’atto del bruciare i corpi, e che accetta l’ordine di bruciare i corpi;
e. il termine ‘persona’ (puggala) usata dal Buddha in frasi come: ‘ la persona virtuosa quando appare nel mondo, porta felicità molti individui’;
4. La persona è identica agli aggregati, in quanto il Buddha disse:
a. i sei organi di senso e i sei oggetti di senso costituiscono la persona;
b. la forma, il carattere eccetera della persona che costituiscono la persona, non vi è nulla oltre a ciò.
5.La persona è diversa dagli aggregati, in quanto:
a. il Buddha disse che il fardello – i cinque aggregati – differisce dal portatore degli aggregati – la persona;
b. Il Buddha disse che la persona si appropria della sete (Taṇhā), quale seconda natura nel ciclo di nascita e morte (samsara);
c. la rinascita di una persona in una nuova vita al fine di subire o godere dei risultati delle azioni (Kamma) in questa vita;
d. l’identità della persona in esistenze differenti, per esempio, l’identità del Buddha e le personalità nelle sue vita precedenti con i nomi di Sunetra, Mahādeva eccetera;
e. Il Buddha non ha affermato che la natura della persona sia permanente o mutevole, mentre ha affermato la natura mutevole degli aggregati.
6. La persona è eterna
a. per via del fatto che essa non ha un principio, in quanto l’origine del ciclo di nascita e morte è inconcepibile (di conseguenza, la persona è eterna);
b. la conoscenza del ricordo delle vite precedenti;
c. perché esiste una sfera eterna (Il Nirvana N.d.T), dove non esistono sofferenza e regresso;
d. e l’esistenza di una gioia imperturbabile della quale è possibile godere.
7. La persona è un fenomeno mutevole, in quanto:
a. essa ha un’origine, come per esempio, la nascita del Buddha, la quale apporta felicità a tante persone;
b. questa vita può trasformarsi in un’esistenza divina;
c. le condizioni di vita cambiano a seconda della vita;
d. gli esseri viventi appaiono e scompaiono;
e. stati come la nascita, l’invecchiamento, la malattia e la morte sono manifestazioni di mutevolezza.
Le contro repliche dei Saṃmitīya:
1. La persona esiste, in quanto:
a. il Buddha non ha negato la persona, perché il suo intento era di illustrare la natura della sofferenza, il sorgere e lo svanire della sofferenza, enfatizzando l’esistenza della sofferenza;
b. Il Buddha ha dichiarato ai seguaci di altre dottrine che la persona esiste come designazione che si basa sui fenomeni compositi;
c. (di conseguenza), l’idea circa la sostanzialità dei cinque aggregati è una visione erronea;
d. il Buddha non nega la persona, ma al fine di eliminare l’attaccamento, ha insegnato la natura insostanziale della persona e di ciò che la riguarda;
e. certamente,la persona è irreale, ma, al fine di abbandonare l’attaccamento verso l’esistenza, il Buddha ha parlato della non-esistenza; ciò non significa che abbia negato la persona.
2. È possibile affermare che la persona esiste, in quanto:
a. nonostante sia impossibile asserire che la persona sia permanente o mutevole, è possibile affermare che la persona esiste, in quanto il Buddha disse: ‘ esistono persone le quali bruciano i propri corpi’ o anche ‘l’ignorante assume le cattive azioni come la propria natura, l’intelligente assume le buone azioni come la propria’;
b. le domande da rigettare sono quelle formulate in maniera incorretta, in quanto il Buddha non ha mai rigettato proposizioni quali ad esempio ‘l’ignoranza è male, l’intelligenza è bene’;
c. l’indeterminazione costituisce parte della persona in quanto la persona è allo stesso tempo né identica ai fenomeni compositi né differente da essi;
d. asserire che la persona non esiste è una visione erronea, in quanto il Buddha ha dichiarato che l’attaccamento alle due visioni di esistenza e non esistenza è errata; perciò questa è una domanda da rigettare (avyakata) in quanto conduce alle idee di permanenza ed mutevolezza. È una visione corretta quando si ammette che la persona esiste incondizionatamente e non appartiene né ai fenomeni compositi e mutevoli né a ciò che è permanente e composito;
e. è possibile affermare che la persona esiste ( condizionatamente) in quanto il Buddha ha affermato che esistono le basi.
3. La persona non esiste come realtà, in quanto:
a. anche se non esiste una persona incatenata, esiste la catena, proprio come in una prigione vi sono delle catene anche quando non vi sono prigionieri;
b. un’opinione circa l’esistenza della persona è una retta visione, perché il Buddha, basandosi sugli aggregati contaminati, ha dichiarato che la persona esiste, in quanto vi è un individuo che percepisce la persona;
c. in realtà, solo la mente (citta) è esistente, la quale interviene nella pratica dei Quattro Fondamenti della Consapevolezza, e nient’altro;
d. il Buddha ha dichiarato ai suoi discepoli che i fenomeni (dharma) esistono sulla base degli elementi, e che non vi è null’altro;
e. Il Buddha ha dichiarato che la persona esiste come designazione (prajnapti). Il rifiuto della persona implica il rifiuto della moralità (sila), delle Quattro Nobili Verità insegnate dal Buddha eccetera.
4. È impossibile affermare che la persona sia identica agli aggregati o che gli aggregati siano identici alla persona, in quanto la persona è ineffabile (avaktavya), diversamente dagli aggregati. Inoltre, se la persona fosse identica agli aggregati, quando questi scompaiono o appaiono, anche la persona dovrebbe scomparire o apparire.
5. È impossibile affermare che la persona sia diversa dagli aggregati in quanto:
a. I Discorsi non affermano la separazione fra la vita di un uomo e la persona, ma affermano che vi è una persona che sopporta il fardello; per questa ragione esiste il fardello;
b. quando la sete è eliminata, non vi sarà più ulteriore trasmigrazione nel ciclo di nascita e morte;questo significa che la persona e gli aggregati non sono separati;
c. è sulla base degli aggregati che questa vita e le vite future ricevono i risultato delle azioni (karman); ciò significa che la persona e gli aggregati non sono separati;
d. l’’Io’ di cui parlava il Buddha è una designazione indicante la trasmigrazione attraverso le differenti esistenze della persona;
c. le caratteristiche delle cose (dharmalaksana) non possono essere definite come permanenti o mutevoli. Lo stesso vale per la persona. Le la persona fosse diversa dagli aggregati:
a. la persona potrebbe essere rinvenuta o nel corpo o comprenderne la totalità;
b. con la distruzione degli organi di senso, i cinque oggetti di senso dovrebbero essere comunque percepibili;
c. la persona potrebbe viaggiare da questo corpo ad un altro, per poi tornare al primo;
d. la persona non deve rinascere in destini differenti; altrimenti, potrebbe rinascere in qualunque destino in qualunque momento; di conseguenza, potrebbe non risiedere sempre nello stesso corpo; perciò la liberazione sarebbe difficile da ottenere; se la persona dovesse passare da un destino all’altro, non creerebbe azioni (karman); se non ci fossero azioni o risultati, non ci sarebbero neanche meriti (puniya); similmente, non vi sarebbe il distacco dai legami, né la pratica della meditazione; è in questo modo che la liberazione deve essere operata.
6. La persona non è eterna, in quanto:
a. non si può affermare che il ciclo di nascita e morte sia eterno in quanto la sua origine è inconcepibile. Similmente, è impossibile sostenere che la persona sia eterna in quanto non ha un’origine visibile;
b. la conoscenza del ricordo delle vite precedenti non permette di arrivare alla conclusione che la persona sia eterna, in quanto la persona è differente dagli aggregati; quando gli aggregati scompaiono, la persona non scompare. Perciò, il ricordo del passato non riguarda questa vita e non si estende alle altre vite, mentre il ciclo di nascita e morte è senza fine;
c. indubbiamente, il Buddha ha parlato del Nirvana con residuo (sopadhisesanirvāna) e di un Nirvana senza residuo, (nirupadhisesanirvāna), ma non ha mai parlato di un persona eterna;
d. la gioia imperturbabile esiste nel Nirvana senza residuo, ma per la persona eterna, non vi è gioia imperturbabile, per essa, gioia e dolore non sono importanti;
7. La persona non è (assolutamente) mutevole in quanto:
a. la persona è designata sulla base dell’apparire degli aggregati; ciò non significa che gli aggregati siano differenti dalla persona. Perciò, è impossibile parlare dell’apparenza della persona, si può parlare solo della sua designazione;
b. se la persona fosse totalmente differente, non ci sarebbe alcuna relazione tra le vite passate e quelle future. Di conseguenza, non ci sarebbero risultati delle azioni, meriti, ricordi eccetera. La mutevolezza della persona si basa sulla scomparsa degli aggregati di un dato destino e il loro riapparire in un altro destino.
Le quindici tesi secondarie dei pudgalavādin:
Parallelamente alla teoria sul puggala, i Vātsīputrīya e i Saṃmitīya elaborarono un serie di quindici tesi secondarie qui riassunte:
1. Esiste un fenomeno imperituro (avipraṇaśadharma) depositario delle impressioni karmiche, diverso dalla mente ordinaria, la quale è un fenomeno mutevole. Questo fenomeno imperituro continua ad esistere attraverso le successive esistenze, e rappresenta la base per la fruizione del risultato delle azioni compiute in una vita passata.
2. Nel sentiero della visione (darsanamarga) vi sono dodici conoscenze;
3. La concentrazione di accesso (Upacarasamādhi) è composto di quattro stati: pazienza, nome,percezione e dharma mondano superiore;
4. La chiara comprensione (abhisamaya) è un processo progressivo;
5. Le cinque conoscenze superiori possono essere ottenute anche dai mondani (puthujjana) e dagli eretici (i non buddhisti N.d.T.);
6. La moralità designa le azioni fisiche e verbali;
7. I meriti si accumulano in continuazione, anche durante il sonno;
8. È impossibile affermare che il tratto caratteristico di ogni cosa (dharmalaksana) (La mutevolezza stessa N.d.T.) sia permanente oppure mutevole;
9 . Esiste un assorbimento meditativo intermedio fra il primo ed il secondo Jhāna ;
10. Esiste una sola verità assoluta: il Nirvāna;
11. Esistono cinque, sei o sette destini (gati) ( I reami d’esistenza N.d.T.);
12. La conoscenza (jñana) è altresì detta Sentiero (Marga);
13. Un Arahant è suscettibile di regressione;
14. Esiste un’esistenza intermedia (antarābhava) nel reame del desiderio. ed in quello della forma;
15. Nel reame della forma vi sono diciassette categorie di esseri celestiali.
Le principali posizioni dottrinali propugnate dalla scuola Dhammaguttika:
1. Anche se il Buddha è parte del Sangha, i meriti derivanti dal fare offerte al Buddha, seppur grandi, non sono paragonabili a quelli derivati dal fare offerte al sangha.
2. Compiere offerte votive ad uno stupa (reliquiario) è un’azione portatrice di grande meriti.
3. Anche se il Buddha e i praticanti dei due veicoli (yāna) sono identici per quanto riguarda la liberazione (vimukti), vi è una differenza per quanto concerne il nobile sentiero seguito da ciascuno dei due (āriya mārga).
4. I seguaci delle altre scuole indiane non buddhiste (tīrthika) non sono in grado di ottenere le cinque realizzazioni (siddhi).
5. Il corpo di un Arahant è esente dalle passioni (anāsrava).
Le rimanenti dottrine di questa scuola sono identiche a quelle sostenute dalla scuola dei Mahāsamghika.
le principali tesi propugnate dai primi Mahīmśāsaka:
1. Il passato e il futuro non esistono. Esistono il presente e l’incondizionato.
2. Esiste una chiara comprensione simultanea delle quattro nobili verità. Quando si realizza la verità della sofferenza, si possono realizzare tutte le [quattro] verità. Chi ha realizzato [le verità una volta nel sentiero della visione, può realizzarle [ancora e ancora nel sentiero della coltivazione] esattamente allo stesso modo.
3. Le afflizioni latenti (anusaya) non sono né mente né attività umane. Sono diversi dalle avversità reali e manifeste. La natura propria delle avversità latenti è la dissociazione dalla mente; la natura propria delle avversità manifeste è l’unità con la mente.
4. I mondani non possono sradicare il desiderio e la rabbia.
5. Nessun eretico può ottenere i cinque poteri soprannaturali.
6. Gli dèi non osservano il brahmacariya.
7. Non esiste alcuna esistenza intermedia.
8. Nell’arhat non c’è un’ulteriore crescita delle azioni meritorie.
9. Le cinque coscienze possono essere sia accompagnate dalla passione che sono libere dalla passione.
10. Le sei coscienze sono tutte accompagnate da attenzione (vitarka) e riflessione (vicāra).
11. Esiste anche un pudgala che è nato nello stadio più elevato [di non-ritornante] (anāgāmin).
12. Esiste la retta visione mondana, ma non la facoltà mondana della fede.
13. Non c’è né meditazione sovramondana (lokottara dhyāna) né attenzione pura (anåsravavitarka) [e riflessione (vicāra)].
14. Le buone [azioni] non sono causa di rinascita.
15. Chi entra nella corrente del risveglio può essere soggetto a regressione, ma gli arhat sono certamente incapaci di regredire.
16. le [otto] parti del nobile sentiero sono tutte incluse nelle [quattro] basi della consapevolezza.
17. Ci sono nove tipi di dharma incondizionati: 1) Cessazione ottenuta attraverso la cognizione discriminativa (2) Cessazione dovuta all’assenza di una causa produttiva. 3) Lo spazio. 4) L’immobile. 5) L’essenza dei buoni dharma. 6) L’essenza dei dharma cattivi. 7) L’essenza dei dharma [moralmente] indeterminati. 8) L’essenza dei membri del [nobile] sentiero. 9) L’essenza dei membri dell’origine dipendente.
18. La concezione è l’inizio, la morte è la fine. Tutti i grandi costituenti materiali degli organi di senso cambiano. Anche la mente e tutte le attività mentali cambiano.
19. Poiché il Buddha vive nel sangha, dare (dāna) al sangha procura una grande fruizione, ma [la grande fruizione non si ottiene] in particolare [attraverso] la donazione al Buddha.
20. Il [veicolo] del Buddha e gli [altri] due veicoli (yāna) sono un unico e medesimo sentiero che conduce a un’unica e medesima liberazione.
21. Viene insegnato che tutte le formazioni (samskāra) periscono all’istante.
22. Nessun dharma può trasmigrare da un’esistenza precedente a quella successiva. Questi sono gli insegnamenti che [questa scuola] aveva originariamente in comune.
Le dottrine sviluppate in seguito sulle quali i Mahīmśāsaka furono in disaccordo sono:
1. Il passato e il futuro esistono davvero.
2. Esiste anche lo stato intermedio dell’esistenza.
3. Tutti i dharma possono essere conosciuti e percepiti.
4. Tutte le azioni (karman) sono mentali (cetanā). Le azioni del corpo e della parola non esistono.
5. L’attenzione (vitarka) e la riflessione (vicāra) sorgono insieme.
6. La grande terra (mahābhumi) dura un kalpa (cioè un ciclo di tempo che comprende nascita, durata e distruzione del mondo).
7. L’atto di fare offerte a uno stupa non procura che uno scarso beneficio.
8. La natura propria delle avversità latenti è sempre presente.
9. Tutti gli aggregati, i campi di senso e gli elementi sono sempre presenti.
Per quanto riguarda la dottrina di questa scuola che si è sviluppata in seguito, sono sorte opinioni divergenti a causa di interpretazioni diverse del versetto seguente:
Cinque cose legano definitivamente.
Da queste nasce ogni sofferenza.
Esse sono: ignoranza, desiderio, passione,
le cinque [false] opinioni e le azioni.
Le proposizioni dei Mahīmśāsaka secondo il Kathāvatthu ( Libro delle Controversie) :
Che il Nobile ( ottuplice ) sentiero sia in realtà quintuplice.
Che vi sono due cessazione di dukkha ( ragionata e non ragionata).
Che la transizione da un Jhāna all’altro sia immediata.
Che gli elementi dell’Origine Dipendente siano in realtà incondizionati.
Che lo spazio sia incondizionato.
Che anche i gesti di accenno (fisico e verbale) siano ugualmente Karma.
Che tre degli otto fattori del Nobile Ottuplice Sentiero non siano stati mentali ma atti materiali.
Che le cinque facoltà spirituali non siano adatte per i laici.
Dottrine delle quattro scuole dei Mahāsāṃghika
le proposizioni su cui Mahāsāṃghika, Ekavyavahārika, Lokottaravādin e Kukkuṭika concordarono originariamente sono:
1. Tutti gli onorevoli Buddha sono al di là di questo mondo (lokottara).
2. Tutti i Tathāgata non hanno elementi contaminanti (sāsrava).
3. Tutte le parole pronunciate dai Tathāgata fanno girare la ruota del Dharma (dharmacakra).
4. Il Buddha insegna tutti i dharma (Kumårajiva: tutti i dharma e tutte le caratteristiche) con un’unica espressione.
5. In ciò che l’Onorato dal Mondo (Bhagavat) ha predicato, non c’è nulla di falso (ayathārtha).
6. Il corpo materiale del Tathāgata è veramente illimitato (ananta).
7. Anche i suoi poteri soprannaturali (prabhāva) sono illimitati.
8. Anche la durata della vita (āyus) del Buddha è oltre ogni misura(apramāda).
9. Il cuore [compassionevole] del Buddha non si stanca mai di risvegliare la fede pura (Sraddhā) negli esseri viventi per convertirli.
10. Il Buddha non dorme né sogna mai.
11. Il Tathāgata risponde alle domande [direttamente] senza affidarsi alla riflessione.
12. Il Buddha non pronuncia mai parole, frasi e così via, perché dimora sempre nella contemplazione (samādhi). Ma gli esseri viventi si rallegrano, credendo che il Buddha [davvero] pronunci parole, frasi e così via. 13. Un istante della mente [del Buddha] contiene la conoscenza distinta di tutti i dharma.
14. [La sua] saggezza (prajñā), che sorge all’unisono con un istante della mente, comprende tutti i dharma.
15. Nei venerabili Buddha, la conoscenza della cessazione [delle passioni presenti] e la conoscenza della non nascita [delle passioni future] operano ininterrottamente finché non entrano nel nirvana finale.
16. Quando entrano nell’utero della madre, i bodhisattva non passano mai attraverso gli stadi embrionali di kalala (l’embrione subito dopo il concepimento), arbuda (il feto nella seconda metà del primo mese), pesa (“un grumo di carne”) o ghana (corpo solido).
17. Quando entrano nell’utero della madre, tutti i bodhisattva assumono la forma di un elefante bianco.
18. Tutti i bodhisattva lasciano l’utero della madre dal lato destro.
19. Nessun bodhisattva produce pensieri di desiderio, rabbia o violenza.
20. Per il benessere degli esseri viventi, il bodhisattva nasce in destini inferiori (durgati) grazie al potere dei suoi voti e rinasce lì a volontà.
21. Attraverso la conoscenza che segue (antikajñāna) la chiara comprensione istantanea (abhisamaya), si comprendono in modo esaustivo tutti i diversi aspetti (åkåra) delle quattro verità.
22. Il quintuplice gruppo di coscienze, la coscienza visiva e così via, può essere accompagnato dalla passione (rāga) ma anche libero dalla passione (virāga).
23. Il sestuplice gruppo di coscienze esiste nel regno della forma così come nel regno della non-forma.
24. Le cinque facoltà materiali sono [semplicemente] grumi di carne. L’occhio non vede le forme; l’orecchio non sente i suoni; il naso non sente gli odori; la lingua non assapora i sapori; il corpo non sente oggetti tattili.
25. Nello stato di concentrazione si possono pronunciare parole. In esso la mente è a volte disciplinata, e a volte inclinata verso la resistenza.
26. Chi ha realizzato ciò che deve essere realizzato è libero dall’attaccamento ai dharma.
27. La mente (citta) e le attività mentali (caitasika dharma) di chi entra nella corrente (srota-āpanna) sono consapevoli della loro stessa natura (svabhāva).
28. Anche gli Arhat possono essere tentati dagli altri. Hanno ancora ignoranza (ajñāna). Dubitano ancora. Sono resi consapevoli della loro illuminazione da altri. Il sentiero (mārga) è prodotto dall’espressione verbale [di sofferenza].
29. La sofferenza (du˙kha) può condurre al sentiero.
30. Dire “Oh, sofferenza!” può essere di aiuto [nella produzione del sentiero].
31. La saggezza (prajñā) è un mezzo per la cessazione della sofferenza e l’ottenimento della felicità (sukha).
32. La sofferenza è anche un cibo (āhāra).
33. Nell’ottavo stadio (il sentiero della visione), si può anche rimanere a lungo. Dalla [prima aspirazione all’illuminazione (bodhicitta)] in poi fino allo stadio finale del sentiero impuro rimane la possibilità di regressione [da ogni stadio].
34. Chi entra nella corrente è ancora soggetto a regressione, ma un arhat non lo è.
35. Non esiste né la retta visione mondana né la facoltà della fede mondana.
36. Non esiste alcun dharma moralmente indeterminato.
37. Si può dire che chi si è stabilito in una condotta perfetta abbia sradicato i legami.
38. Coloro che sono entrati nella corrente sono soggetti a commettere qualunque azione negativa eccetto i [cinque] atti a retribuzione immediata (ānantarya).
39. Tutti i sutra predicati dal Buddha hanno un significato esplicito.
40. Ci sono nove dharma incondizionati:
1) La cessazione ottenuta tramite cognizione discriminativa.
2) La cessazione dovuta all’assenza di una causa produttiva.
3) Lo spazio.
4) La sfera dello spazio illimitato.
5) La sfera della coscienza illimitata.
6) La sfera del vuoto.
7) La sfera né della né percezione né assenza di percezione.
8) La natura propria degli elementi dell’origine dipendente.
9) La natura propria degli elementi del nobile sentiero.
41. La natura propria della mente (cittasvabhāva) è originariamente pura. Ma quando si macchia della polvere avventizia delle contaminazioni, si dice che sia impura.
42. Gli stati latenti delle contaminazioni (anusaya, passioni dormienti) non sono né mente né attività mentali, e non hanno alcun oggetto (anālambana).
43. Gli stati latenti delle contaminazioni differiscono dalle contaminazioni manifeste (paryavasthāna) e viceversa, perché le prime non sorgono in unità con la mente, mentre le seconde sì.
44. Passato e futuro non hanno esistenza sostanziale (dravya).
45. I dharma (dharmāyatana) non sono conosciuti dalla conoscenza [mondana] (jñeya) né appresi da una coscienza [contaminata (sāsrava)] (vijñeya). Possono essere realizzati direttamente [solo dall’arhat che è entrato nel sentiero della visione].
46. Non esiste alcuno stato intermedio di esistenza (antarābhava).
47. Anche coloro che entrano nella corrente raggiungono stati di meditazione (dhyāna). Tali sono gli insegnamenti [originariamente] tenuti in comune [dalle quattro scuole dei Mahāsāṃghika].
Le dottrine differenziate delle quattro scuole dei Mahāsāṃghika secondo il testo di Vasumitra sono:
1. A ogni aspetto separato (åkåra) delle quattro verità corrisponde una comprensione separata (abhisamaya).
2. Alcuni dharma sono auto-creati, alcuni sono creati da altri, alcuni sono creati da entrambi [sé e altri], e alcuni nascono in dipendenza da condizioni.
3 Due [diverse] coscienze possono sorgere simultaneamente.
4. I [dharma del] sentiero (marga) e le contaminazioni (klesa) sorgono insieme. 5. Le azioni (karman) e la loro retribuzione (vipaka) esistono simultaneamente.
6. Il seme (bija) stesso continua a esistere nel germoglio.
7. I grandi costituenti materiali degli organi di senso cambiano. La mente e le attività mentali no.
8. La mente pervade il corpo e, in accordo con il suo supporto [degli organi di senso] e l’oggetto, si contrae e si espande.
Queste dottrine successive subirono un ulteriore sviluppo. Furono fatte nuove distinzioni, che portarono a un’infinita varietà di dottrine.
Dottrine dei Bahuśrutīya:
Gli insegnamenti sui quali i Bahuśrutīya concordarono originariamente sono:
1. Le seguenti cinque affermazioni (svara) del Buddha costituiscono il suo insegnamento ultramondano (lokottarasåsana), perché conducono al sentiero della liberazione: 1) impermanenza, 2) sofferenza , 3) vacuità, 4) non-sé, e 5) il nirvana è pace. Tutte le altre affermazioni del Tathågata sono il suo insegnamento mondano.
2. Anche gli Arhat possono essere tentati dagli altri. Hanno ancora ignoranza. Dubitano ancora. Vengono resi consapevoli della loro illuminazione da altri. Il percorso è prodotto attraverso l’espressione vocale [della sofferenza]. La maggior parte delle loro altre dottrine [di questa scuola] sono le stesse di quelle dei Sarvåstivådin.
Dottrine dei Prajñaptivādin:
Le proposizioni su cui i Prajñaptivådin concordarono originariamente sono:
1. La sofferenza non consiste nei [cinque aggregati impuri (såsrava)](skandha).
2. I dodici campi sensoriali (åyatana) non esistono realmente.
3. Le formazioni cooperative, che si sviluppano in modo interdipendente e formano un continuum armonioso, sono convenzionalmente chiamate “sofferenza”. Non esiste un [altro] soggetto di sofferenza.
4. La morte non è mai prematura. È ciò che si riceve come risultato di azioni passate (purvakarman).
5. Le azioni continuano a crescere e [alla fine] diventano una causa da cui nasce la fruizione della retribuzione.
6. Si entra nel sentiero sacro attraverso l’accumulo di meriti. Non c’è bisogno di coltivare [la conoscenza].
7. Il sentiero, [una volta ottenuto,] non può essere perso. La maggior parte degli altri insegnamenti [di questa scuola] sono gli stessi di quelli dei Mahāsāṃghika.
Dottrine delle tre scuole degli Andhra-Mahāsāṃghika
Le dottrine che i Caitika, gli Aparaaśaila (omessi in Kumarajiva e Paramartha) e gli Uttaraśaila avevano originariamente in comune sono:
1. Molti bodhisattva non sono [ancora] liberi da [rinascite in] destini malvagi (durgati).
2. L’atto di venerare uno stupa non procura grande fruizione.
3. Ci sono arhat che sono tentati da altri, e così via.
Queste proposizioni e la maggior parte degli altri insegnamenti [di questa scuola] sono gli stessi dei Mahāsāṃghika.
A cura di Davide Puglisi,
Gruppo Dhammadana

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