Riassunto del Dhamma talk di martedì 18 marzo 2025
Negli incontri precedenti abbia detto che il dukkha è prodotto dall’ignoranza della realtà ( problema di ordine cognitivo) e dall’ afferrarsi alle reazioni emotive ( problema di carattere affettivo). Questi stati malsani agitano il citta, la mente profonda, generando dukkha sotto forma di insoddisfazione persistente, malessere e tristezza. Date queste premesse, il rimedio al dukkha deve necessariamente basarsi sull’ eliminazione della distorsione cognitiva e della proliferazione emotiva. La cessazione del dukkha è detta nirodha o nibbāna, e rappresenta l’obiettivo della pratica buddhista, nei suoi tre aspetti di etica, meditazione e saggezza.
Dal punto di vista linguistico, nibbāna ha una chiara valenza allegorica: nir+ vāna significa infatti “soffiato via”; qui l’ allegoria del fuoco assume la valenza negativa di elemento distruttivo. Al contrario, il nirvāna è uno stato di calma, refrigerio e chiarezza incondizionati; è uno stato in cui i fuochi dell’ ignoranza, della brama e della repulsione, sono stati estinti. Un’altra resa di nirvāna è “assenza di riverbero”. Il riverbero è quello dell’ emotività nata dal contatto sensoriale con gli oggetti esterni e interni, contatto che agita la mente offuscandone la naturale chiarezza. A questo proposito, nel Dhammapada è scritto:
“Se rendi te stesso silenzioso (neresi) come un gong rotto [che più non riverbera], hai ottenuto il nibbāna: in te non vi è più conflittualità.”
(VV. 134)
Neresi, silenzioso, significa che non si agita, non riverbera.; lett. non causa movimento [na + √īr + *e + ti]. Il nibbāna è altresì definito come la cessazione del bhava ( bhavo nirodha nibbānam), l’io-sono nel mondo, nato dalla personalizzazione dell’ esperienza nei termini di “me, io sono, il mio sé.” Il suo ottenimento dipende dalla capacità del praticante di sradicare le cause profonde dell’ attaccamento o personalizzazione. (upādāna); questo termine significa prendere (adāna) verso di sé (upa); alla lettera upādāna significa “combustibile”, ciò che alimenta i fuochi della sofferenza. Il Buddha indicò nella brama (taṇhā) il fondamento causale dell’attaccamento (taṇhāpaccayā upādānaṃ); essa è definita come il fertilizzante (sneha) o alimento (āhāra) dell’esistenza condizionata (upādānapaccayā bhavo). Al fine di realizzare il nibbāna, bisognerà eliminare le cause fondamentali del dukkha:
1)l’ignoranza della natura precaria, insoddisfacente e impersonale di ogni cosa che afferriamo come ‘me’ e ‘mio’ (avijjā, moha);
2) Brama illusoria che cerca continuamente una soddisfazione duratura impossibile da ottenere in mondo soggetto al cambiamento e all’incertezza (lobha);
3)Avversione verso ciò che è percepito come ostacolo alla nostra disperata e irrealizzabile ricerca di gratificazione e soddisfazione durature (dosa).
Per questa ragione, il nirvāna è definito come l’incondizionato ( asankhata).
Tutte le pratiche di Dharma, dall’etica alla meditazione fino alla coltivazione della chiara visione (vipassanā*), sono finalizzate a questo progetto spirituale, un obiettivo altamente impegnativo e di non facile realizzazione. A questo proposito, è di fondamentale importanza che il praticante abbia ben chiari i propri obiettivi e agisca di conseguenza: cosa stiamo cercando di ottenere dalla pratica, il rilassamento o la liberazione? Vogliamo il piacere dell’ avere e dell’ essere o la gioia della liberazione? Aneliamo al ben-essere o al superamento dell’ essere?
Sebbene il fine ultimo della pratica del Dharma sia la liberazione definitiva, anche le pratiche incentrate sul benessere personale sono parte del repertorio di pratiche del BuddhaDharma, pur non rappresentandone il fine ultimo. Il Samādhibhavana Sutta cita quattro forme di samādhi, una delle quali è esplicitamente dedicata a questo scopo. Gautama stesso praticava questo genere di esercizi spirituali per il proprio benessere, anche dopo aver ottenuto lo stato di Buddha. Inoltre, il Pasadika Sutta definisce gli stadi meditativi ( jhāna) come forme di piacere adatte a monaci e asceti impegnati h24 nella realizzazione del nirvāna. Entrambi i testi, e altri ancora, descrivono la meditazione sui jhāna come uno strumento per rilassare la tensione emotiva e ottenere un benessere psicofisico non edonistico ( con buona pace del Dottor Freud
) , anche se pur sempre condizionato e perciò insoddisfacente.
Vi è una differenza fondamentale tra il piacere della gratificazione, quello meditativo e la serenità equanime del non attaccamento: mentre il piacere mondano è ottenuto solo con l’acquisizione di qualcosa, la felicità e la gioia della meditazione sono ottenute lasciando temporaneamente andare le fonti dello stress psicofisico; d’altro canto, la serenità dell’ equanimità è ottenuta eliminando alla radice le fonti dell’ emotività.
Ma perché non possiamo fidarci del piacere sensuale? Perché dipendendo da condizioni non sempre governabili e per via della sua natura temporanea, non è un mezzo affidabile. La sua natura è dukkha…
*Vipassanā o paññā non è una tecnica di meditazione ma una facoltà (indriya), un potere (bala) della mente di percepire correttamente la realtà o natura dell’ esperienza. In particolare vipassanā è vedere con chiarezza i cinque aspetti di ogni esperienza: il suo sorgere, lo svanire, la gratificazione a cui essa conduce, l’insoddisfazione e i limiti che la caratterizzano e la via d’uscita da essa.

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