la genesi del sé illusorio

“Monaci, cos’è il dukkha? L’afferrare i cinque aggregati, così è da rispondere”.

Samyuttanikāya III, Khandasamyutta, Antavagga, sutta N°2

La persona è il sé

Contrariamente a quanto spesso sentiamo dire, il Buddha non negò mai l’esistenza della persona (sattha, puggala o purisa) in quanto tale; la persona esiste in quanto insieme dinamico e coerente di aggregati psicofisici: corpo, sensazioni, percezioni, attività mentali e coscienza. questo insieme di aggregati è ciò che viene comunemente chiamato il sé convenzionale, o più semplicemente, la persona o individuo. Nell’attakarisutta il Buddha confuta espressamente l’idea che non vi sia una tale persona-agente[1]. Negare l’esistenza dell’individuo significherebbe negare la realtà della legge di causa ed effetto, cadendo così nell’estremo del nichilismo. D’altro canto, l’idea di un sé statico e autonomo rispetto agli aggregati psicofisici è una visione erronea che eccede i limiti della realtà delle cose. Vediamo ora come, secondo la visione buddhista, si manifesti la concezione del sé illusorio.

Esperienza immediata , riflessione e descrizione

Qualsiasi esperienza che abbia un qualsiasi grado di coscienza ha due parti fondamentali: l’esperienza immediata, ovvero la percezione e l’esperienza riflessiva, il prendere l’esperienza immediata come oggetto della nostra attenzione. L’esperienza riflessiva, a partire dalla mera presa di coscienza, è il risultato dell’esperienza immediata; l’esperienza immediata viene prima, mentre l’esperienza riflessiva si manifesta immediatamente dopo. L’esperienza immediata è la struttura fondamentale, la riflessione è la sua sovrastruttura:

“Potthapada, la percezione sorge prima, la conoscenza dopo.” (Digha Nikaya 9)

Inoltre, secondo il  Nibbedhikasutta, (Anguttara Nikaya 6.9)

“La percezione, monaci, dico che porta alla descrizione (voharati). Ciò che si percepisce come questo e quello, così lo si descrive: ‘Ho percepito così e così’. Questo, monaci, è il risultato della percezione”.

Saññā: la percezione

Nel primo discorso il Buddha affermò che «in sintesi, l’attaccamento ai cinque aggregati è [causa] di sofferenza». Il riferimento è all’attaccamento alla nozione del sé (attavādupādāna) e alle variabili che la percezione del sé può assumere (Diṭṭhupadānā). Ma come avviene la percezione del sé? Secondo il Mūlapariyāyasutta (MN1), quando l’individuo si trova nello stato auto-riflessivo (ovvero quando pensa o riflette su se stesso, sulla propria esperienza immeditata) immagina la realtà della propria esistenza in maniera distorta, proiettando inconsciamente sugli aggregati l’immagine fittizia di un sé permanente e sostanziale; il condizionamento dell’ignoranza sui processi mentali fa sì che la persona scambi il complesso insieme di elementi fisici e psichici che la costituiscono per un “Io-sono” statico e autonomo. La staticità è la componente temporale dell’esistenza, l’autonomia ha a che fare con l’aspetto spaziale. Il Buddha definì gli aggregati come ciò che esiste a livello spazio-temporale. [2]  A tal proposito, il Vipallasasutta (AN 4.49) enumera quatto tipi di percezione erronea: anicce dukkhasaññā: percepire stabilità in ciò che è transitorio; dukkhe sukhasaññā: percepire soddisfazione in ciò che è insoddisfacente; anattani ca attāti: percepire la facoltà di dominio in ciò che è fuori dal nostro controllo; asubhe subhasaññino : percepire gradevolezza in ciò che è sgradevole.[3]

Maññanā: la concezione

Maññanā significa immaginare o concepire significa immaginare o concepire; è il proiettare delle qualità o caratteristiche su un oggetto che in realtà ne è privo; questo termine deriva dalla radice verbale ‘mañ’, pensare. È un concetto strettamente imparentato con quello della riflessione non saggia (ayoniso-manasikara). Nell’immaginare se stesso, l’individuo proietta su quanto osservato concetti quali ‘mio’, ‘Io’, e ‘mio Sé’. Il Buddha disse che queste concezioni dell’“io” e del “mio” sono tendenze inconsce (anusaya). Ciò significa che la mente non compie alcuno sforzo deliberato per concepire l’ ‘io’ e il ‘mio’. Il Mahapunnamasutta (SN22.8) spiega che l’origine della visione erronea di un sé statico (sakkāyadiṭṭhi) è da rintracciare nel modo in cui l’individuo inconsapevole del Dharma considera (samanupassati[4]) i propri aggregati come identici al supposto sé, oppure come una sua proprietà, o come parti di esso, o come contenenti il sé:

“L’uomo comune, ignaro del Dhamma … considera la forma come sé, o il sé come se possedesse la forma, o la forma come se fosse in sé, o il sé come forma. Considera la sensazione come sé… la percezione come sé… le formazioni mentali come sé… la coscienza come sé, o il sé come possessore di coscienza, o la coscienza come interna al sé, o il sé come interno alla coscienza. Ecco come nasce la visione dell’identità”.

Questo processo è descritto nel Mūlapariyāyasutta:

“L’uomo comune, ignaro del Dhamma.. percepisce quanto visto … sentito … esperito e conosciuto, e avendo percepito il conosciuto come tale, concepisce [se stesso come] ciò che ha conosciuto, concepisce [se stesso] in [relazione] a ciò che ha conosciuto, concepisce [se stesso distinto] da ciò che ha conosciuto, concepisce ciò che ha conosciuto come ‘per me’; ed egli prova diletto in ciò che ha visto, sentito, esperito e conosciuto. E per quale ragione? Perché egli non lo ha pienamente compreso.

Secondo Bhikkhu Bodhi, l’espressione «Egli concepisce [se stesso come] X», indica una relazione di identificazione diretta con il fenomeno percepito; «concepisce [se stesso] in [relazione] ad X», indica una relazione di inerenza o appartenenza, l’identificare se stessi come facenti parte di un certo fenomeno; «concepisce [se stesso distinto] da X», indica una relazione di differenziazione e distinzione con il fenomeno, e la possibilità di potersene appropriare; «concepisce X come ‘mio’», indica l’esperienza dell’appropriazione, il portare l’oggetto sotto il proprio controllo; «Egli gode di X»: Il godere nell’attaccarsi a qualcosa come io o mio è la strategia fondamentale attraverso la quale la persona tenta di dare sostanza al suo esistere tramite la gratificazione dei sensi.” Perciò il Buddha disse: “la sete è il fondamento dell’attaccamento; l’attaccamento è il fondamento dell’esistenza.”

Perciò, Il dukkha della prima Nobile Verità consiste nell’afferrarsi ai cinque aggregati, ma ciò non dipende dal fatto che le cose siano soggette al cambiamento, ma bensì dal fatto che queste vengano afferrate come ‘Io’ e ‘Sé’.

Sakkāyadiṭṭhi  e asmimāna

Se il sakkayaditthi ( io sono questo) è l’esperienze del sé illusorio che nasce con l’identificazione con gli aggregati, asmīti o asmimāna (io-sono) è uno strato più profondo di questo processo inconscio di ideazione del sé. Il Khemakasutta (SN22.8) riporta un interessante dialogo fra un gruppo di monaci e l’anziano monaco Khemaka su questo punto. 

“Anche quando i cinque legami inferiori sono scomparsi in un nobile discepolo, in lui c’è ancora, per quanto riguarda i cinque aggregati soggetti all’attaccamento, una piccola quantità non trascurabile della presunzione dell’“io sono”, del desiderio di “io sono”, della tendenza latente “io sono” (SN 22:89).”

Ayoniso manasikara: la riflessione non saggia

L’immagine illusoria di un sé sostanziale prodotta dall’errata riflessione sulle cose (ayoniso manasikara) viene altresì proiettata nei tre tempi di passato presente e futuro, generando rimpianto circa il passato, irrequietezza per il presente e ansia in riguardo al futuro; dal Sabbāsavasutta (MN, 2):

“E per via dell’errata considerazione (ayoniso manasikara) egli così pensa: ‘Sono mai esistito nel passato?’ O ‘non sono mai esistito?’ ‘Che cosa sono stato in passato?’ ‘E come sono esistito nel passato?’ ‘Ed essendo stato cosa, come Io divenni altro?’; ‘Esisterò futuro?’ ‘Non esiterò nel futuro?’ ‘Cosa sarò nel futuro?’ ‘E come sarò nel futuro?’ ‘Ed essendo nel presente, come diventerò nel futuro?’ Ed egli è inoltre internamente perplesso in riguardo al presente: ‘Esisto?’ ‘Non esisto?’ ‘Che cosa sono?’ ‘come sono?’ ‘Da dove è sorto questo essere, e dove andrà a finire?’

E per via di tale errata considerazione egli giunge a uno dei sei punti di vista errati: la visione errata ‘Per me Il sé esiste’ sorge in lui come vera e certa; la visione ‘ Per me Il Sé non esiste’ sorge in lui come vera e certa; la visione ‘Percepisco il Sé tramite il Sé’ sorge in lui come vera e certa; la visione ‘Percepisco il non-sé tramite il sé’ sorge in lui come vera e certa; la visione ‘Percepisco Il Sé tramite il non-sé’ sorge in lui come vera e certa; oppure tale visione sorge in lui: E’ proprio questo mio sé che parla e sente e sperimenta qua e là i risultati delle azioni virtuose e non virtuose, ma questo mio sé è permanente, duraturo, eterno, non soggetto al cambiamento, e tale rimarrà per l’eternità. Questa, o monaci, è detta la selva delle visioni errate, il deserto delle visioni errate, la perversione delle visioni errate, il garbuglio delle visioni errate, il legaccio delle visioni errate. Imprigionato dal legaccio delle visioni errate, o monaci, l’inesperto non è libero da nascita, invecchiamento e morte, da pena (soka), lamento (parideva) da dolore e sofferenza (dukkhadomanassa) e disperazione (upayasa); Io vi dico che egli non è libero dalla sofferenza.”

Essere e dukkha

Questa supposta persistenza del sé nei tre tempi, è , in essenza, è l’essere o esistere (bhava) di cui parla il Buddha nell’ambito della dottrina sull’Origine Dipendente. Ma perché l’attaccamento al sé illusorio è causa di infelicità? La ragione è ché il sé è concepito come un ente statico, mentre in realtà è un processo dinamico. Il conflitto fra la supposta staticità (che è solo nella nostra mente) del bhava e la sua mutevolezza organica, deflagrerà in disappunto, nel momento in cui il tradimento delle nostre aspettative illusorie si paleserà.  L’illusione è la madre della delusione. Dalla delusione nasce la disperazione.

Il ruolo della coscienza (viññana)

In tutto questo processo, un ruolo chiave è giocato dalla coscienza; nello stato riflessivo, l’individuo afferra uno o più aggregati come il sé; tuttavia, per via del fatto che sia il corpo, che sensazioni, percezioni e attività mentali appaiono alla mente ordinaria come soggetti al cambiamento, il candidato ideale per assumere il ruolo del sé ricade sulla coscienza mentale: riflessivamente,  l’individuo scambia la continuità della coscienza per la sua staticità o permanenza. Di fatto, ciò che viene comunemente inteso come sé non è altro che una designazione applicata alla coscienza mentale. Nell’ Assutavāsutta (SN12.7) il Buddha afferma:

“Monaci, è possibile che l’inesperto uomo comune possa sviluppare il disincanto, il distacco e l’affrancamento in riguardo a questo corpo composto dai quattro grandi elementi; per quale ragione? Per via del fatto che è possibile osservare in tale corpo una crescita e un declino, l’appropriazione e l’abbandono… Tuttavia, è difficile che un inesperto uomo comune possa sviluppare il disincanto, il distacco e l’affrancamento in riguardo a ciò che è chiamato mente , pensiero o coscienza. E per quale ragione? Per lungo tempo, o monaci, l’inesperto uomo comune ha afferrato, accudito e considerato [la coscienza] così: ‘questo è mio, ciò sono io, questo è il mio sé’.”

La coscienza non designante

Per questa ragione, la soluzione risiede nell’affrancare la coscienza dalla morsa dell’attaccamento autoreferenziale e dalla nozione dell’io sono questo e dell’ io sono:

“Dove acqua e terra, fuoco e vento non trovano più appiglio?
Dove [ le nozioni di] lungo e corto, stretto e largo,
bello e brutto, mentale e materiale si dissolvono senza residui?”
“Così è da rispondere: Nella coscienza (viññāna )non designante (anidassana), non limitata, completamente luminosa:

lì acqua e terra,
fuoco e vento non trovano più appiglio;
lì il lungo e corto, stretto e largo, bello e brutto,
mentale e materiale
si dissolvono senza alcun residuo.
Con la cessazione della coscienza,
a tutto ciò si pone fine.”

(Kevaṭṭasutta, DN 11)

NOTE

1. Brahmino: “Venerabile Gotama, io sono uno di una tale dottrina, di un tale punto di vista: ‘Non esiste alcuna persona che agisce per propria volontà o che agisce per volontà altrui’”

Buddha: “Brahmano, non ho mai visto o sentito una tale dottrina, un tale punto di vista. Come può una persona, muovendosi avanti e indietro per propria volontà dire: ‘Non esiste alcuna persona che agisce per propria volontà o che agisce per volontà altrui’? Cosa ne pensi, bramino, Esiste o non esiste il fenomeno dell’iniziare, del dare il via [ad un’attività]? “

“Esiste, venerabile signore.”

“Esistendo un tale fenomeno dell’iniziare [un’attività], è possibile o meno discernere esseri che danno vita ad azioni?

“Certo, venerabile signore.”

“Ecco bramino, esistendo il fenomeno dell’iniziare [un’attività], è possibile conoscere esseri che danno inizio [a delle attività]; questi sono gli esseri che iniziano [un’attività] da se stessi o per conto di altri.”

“Cosa ne pensi, bramino, esiste o meno il fenomeno dell’impegno.. il fenomeno dello sforzo.. il fenomeno della risolutezza…il fenomeno della costanza…il fenomeno dell’esercizio?

“Esiste, venerabile signore.”

“Esistendo il fenomeno dell’impegno, è possibile individuare esseri impegnati [in qualche attività]?

“Certo, venerabile signore.”

“Così, bramino, esistendo la sfera dell’impegno, è chiaramente possibile individuare esseri intenti all’impegno; questi esseri, agiscono di propria volontà o per volontà altrui. Bramino, non ho mai visto o sentito una tale dottrina, un punto di vista come questo. Come può una persona, muovendosi avanti e indietro per propria volontà dire: ‘Non esiste nessuna persona che agisce per propria volontà, non esiste nessuna persona che agisce per volontà altrui’?

-Attakārī Suttam. AN. 6.38

2. “𝘔𝘰𝘯𝘢𝘤𝘪, 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘶𝘯𝘲𝘶𝘦 𝘧𝘰𝘳𝘮𝘢 𝘮𝘢𝘵𝘦𝘳𝘪𝘢𝘭𝘦 𝘱𝘢𝘴𝘴𝘢𝘵𝘢, 𝘧𝘶𝘵𝘶𝘳𝘢 𝘦 𝘱𝘳𝘦𝘴𝘦𝘯𝘵e, 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢 𝘰 𝘦𝘴𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢, 𝘨𝘳𝘰𝘴𝘴𝘰𝘭𝘢𝘯𝘢 𝘰 𝘴𝘰𝘵𝘵𝘪𝘭𝘦, 𝘪𝘯𝘧𝘦𝘳𝘪𝘰𝘳𝘦 𝘰 𝘴𝘶𝘱𝘦𝘳𝘪𝘰𝘳𝘦, 𝘭𝘰𝘯𝘵𝘢𝘯𝘢 𝘰 𝘷𝘪𝘤𝘪𝘯𝘢: 𝘤𝘪𝘰̀ 𝘦̀ 𝘥𝘦𝘵𝘵𝘰 𝘢𝘨𝘨𝘳𝘦𝘨𝘢𝘵𝘰 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘧𝘰𝘳𝘮𝘢; 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘶𝘯𝘲𝘶𝘦 𝘴𝘦𝘯𝘴𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦, 𝘱𝘦𝘳𝘤𝘦𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦, 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘯𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘦 𝘤𝘰𝘨𝘯𝘪𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘱𝘢𝘴𝘴𝘢𝘵𝘢, 𝘧𝘶𝘵𝘶𝘳𝘢 𝘰 𝘱𝘳𝘦𝘴𝘦𝘯𝘵𝘦, 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢 𝘰 𝘦𝘴𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢, 𝘨𝘳𝘰𝘴𝘴𝘰𝘭𝘢𝘯𝘢 𝘰 𝘴𝘰𝘵𝘵𝘪𝘭𝘦, 𝘪𝘯𝘧𝘦𝘳𝘪𝘰𝘳𝘦 𝘰 𝘴𝘶𝘱𝘦𝘳𝘪𝘰𝘳𝘦, 𝘭𝘰𝘯𝘵𝘢𝘯𝘢 𝘰 𝘷i𝘤𝘪𝘯𝘢, 𝘤𝘪𝘰̀ 𝘦̀ 𝘥𝘦𝘵𝘵𝘰 𝘢𝘨𝘨𝘳𝘦𝘨𝘢𝘵𝘰 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘤𝘰𝘨𝘯𝘪𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦. 𝘐𝘯 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘴𝘦𝘯𝘴𝘰, 𝘰 𝘮𝘰𝘯𝘢𝘤𝘰, 𝘭𝘢 𝘥𝘦𝘴𝘪𝘨𝘯𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘪 ‘𝘢𝘨𝘨𝘳𝘦𝘨𝘢𝘵𝘰’ 𝘦̀ 𝘢𝘱𝘱𝘭𝘪𝘤𝘢𝘣𝘪𝘭𝘦 𝘢𝘨𝘭𝘪 𝘢𝘨𝘨𝘳𝘦𝘨𝘢𝘵𝘪”.

 (𝘗𝘶𝘯̣𝘯̣𝘢𝘮𝘢𝘴𝘶𝘵𝘵𝘢, 𝘚𝘕 22,82)

3. In merito alla natura illusoria delle percezioni erronee, Bhikkhu Ñāṇananda scrive: “La percezione può essere paragonata a un miraggio; la natura simile a un miraggio della percezione deve essere compresa. Un cervo vittima di un miraggio percepisce in lontananza dell’acqua in quella che è in realtà una pianura arida. In altre parole, immagina acqua nel miraggio. Spinto dall’immaginazione, esso corre verso il miraggio con l’idea che correndo potrà colmare il divario tra sé e l’acqua ed infine raggiungerla; Ma c’è qualcosa di cui il cervo non è a conoscenza, e cioè che questo divario non potrà mai essere colmato correndo incontro al percepito.”

4. Da questa prospettiva, il condizionante principale è il considerare (samanupassana) ovvero, l’afferrare mentalmente i cinque aggregati psicofisici come io e mio:

“Yā kho pana bhikkhave sā samanupassanā sankhāro so.”

“Monaci, il considerare è un condizionante.”

(SN III, Khandasamyutta, Khajjhaniyavagga, sutta 9)

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