“Nel valutare un’azione dal punto di vista etico, il criterio buddhista è che un’azione è buona in quanto i suoi risultati sono buoni sia per la società che per l’individuo che in essa vi abita, in uguale misura, per entrambe le parti. Nella giurisprudenza buddhista, il miglior giudice delle nostre azioni è la nostra coscienza.”
(Narada Mahathera)
Contrariamente a quanto accade in Occidente e nei paesi islamici, dove la cannabis è considerata una sostanza stupefacente e il cui consumo è perciò bandito o rigidamente regolamentato, in India la canapa è da sempre impiegata per scopi terapeutici e nei rituali religiosi. La canapa (pāli: Bhangodaka) è elencata nei testi vinaya sulla disciplina monastica fra le piante medicamentose consentite ai monaci per preparare un bagno di vapore (sauna) in caso di malattia. C’è da precisare che non è ben chiaro se si trattasse di canapa o cannabis. Tuttavia, ciò non dovrebbe essere interpretato come un incoraggiamento al consumo di stupefacenti e all’ incoscienza.
Il quinto precetto etico buddhista per i laici* invita all’astenersi dal consumo di sostanze alcoliche, fermentate o meno, causa di ottundimento (pamāda); i cinque precetti sono pratiche (sikkhapada) per una vita armoniosa che il praticante assume su base volontaria e non comandamenti imposti a divinis la cui trasgressione comporterà una punizione dopo la morte. Stranamente, la formulazione tradizionale del quinto precetto non include la cannabis fra le sostanze da evitare. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che, come detto in precedenza, la cannabis era considerata una pianta medicinale e non un pericoloso vizio. È altresì risaputo che certi tipi di piante psicoattive come la Soma sono utilizzate dagli yogin nelle pratiche rituali. Il Buddha aveva un’attitudine pragmatica all’etica. In merito all’abuso abituale di alcolici, il Siṅgālasutta elenca sei svantaggi o danni:
1.Perdita di ricchezza,
2.Aumento di dispute,
3.Suscettibilità alle malattie,
4.Cattiva reputazione,
5.Impudicizia,
6.Indebolimento dell’intelletto.
A mio modesto parere, il consumo di sostanze a scopo ricreativo non costituirebbe di per sé un grosso problema, a patto che questo consumo non generi alterazioni psichiche causa di ottundimento (pamāda) e comportamenti dissennati e pericolosi. Ciò implica però un forte senso di responsabilità e intelligenza non scontate. In caso contrario è preferibile l’astensione tout court. Va da sé che questo approccio moderato all’etica buddhista potrebbe risultare indigesto a certi buddhisti ultraortodossi inclini a una interpretazione letterale e inflessibile dei precetti etici buddhisti. Tuttavia il grave problema dell’abuso di droghe e alcol non è solo una questione di pubblica morale, di legalità o peggio, di adesione dogmatica alle norme religiose. Esso ha più a che fare con la psicologia che con la moralità e i dogmi. Le dipendenze sono il sintomo manifesto di un problema esistenziale irrisolto che necessita di essere compreso. Per il Buddha, l’etica e la comprensione profonda dei meccanismi che governano la nostra vita devono andare di pari passo, come espresso in questo passo del Soṇadaṇḍasutta (DN4):
“Dove vi è etica, vi è saggezza, dove vi è saggezza vi è etica. Una persona etica è saggia, un saggio è etico. Etica e saggezza sono definite come le cose più alte in questo mondo.”
*sura–meraya–majja-pamadatthana veramani sikkhapadam samadiyami:
Sura : bevande fermentate;
Merya: bevande distillate;
Majja: bevande inebrianti’;
Pamadatthana: causa di ottundimento;
Veramani: astenersi da;
Sikkhapadam: addestramento ;
Samadiyami: mi impegno.


Lascia un commento