
IV. Il Ridivenire come metafora dell’esistenza
La pedagogia di Gautama
𝗟𝗮 𝗽𝗲𝗱𝗮𝗴𝗼𝗴𝗶𝗮 𝗱𝗶 𝗚𝗮𝘂𝘁𝗮𝗺𝗮
Nel Neyyattha Sutta ( AN 2.25) Il Buddha afferma che vi sono due tipi di persone che, fraintendendo le sue parole, lo diffamano: chi interpreta un discorso il cui senso è esplicito (nītattha) come se necessitasse di essere interpretato (neyyattha) e viceversa.
Perciò, è evidente che l’uso del linguaggio metaforico o astratto era utilizzato dal Buddha medesimo, Il quale era particolarmente abile nell’appropriarsi e riadattare le parole dei propri interlocutori in chiave allegorica; questa strategia comunicativa fu poi ripresa dai commentatori come Buddhaghosa e Vasubhandu, come vedremo in seguito. I testi canonici sono ricchi di tali astrazioni lingusitiche. Un bellissimo esempio di tale prassi comunicativa è contenuto nel seguente dialogo fra Gautama e un Bramino agricoltore:
E il Bramino Kasibhāradvāja avendo visto il Beato, in piedi [in attesa] della questa, disse lui: «Io, o asceta, aro e semino, e dopo aver arato e seminato, mangio. Anche tu, asceta, ara e semina, e dopo aver arato e seminato, mangerai».
«Anch’io, bramino, aro e semino; avendo arato e seminato, mangio».
«Ma noi non vediamo né il giogo, né l’aratro, né il vomere o il pungolo o i buoi del Signor Gotama; e tuttavia il Signor Gotama così afferma: ‘Anch’io, bramino, aro e semino; avendo arato e seminato, mangio ’».
Quindi, il Bramino Kasibhāradvāja indirizzò al Beato questi versi:
«Vi definite un coltivatore, ma noi non vediamo alcuna coltivazione; vi domandiamo del vostro coltivare: parlateci di ciò, cosicché noi si possa riconoscere il vostro coltivare.»
[Il Buddha] : «La fiducia è il mio seme,
risolutezza la pioggia,
la saggezza è il mio giogo e l’aratro.
Coscienziosità il mio aratro,
la mente le mie briglie,
Consapevolezza il mio vomere e il pungolo.
Domo nel corpo e nella parola,
Disciplinato nell’assumere il cibo;
La veridicità è il mio falcetto,
gentilezza la mia seminagione[ovvero: liberalità].
Il vigore è la mia bestia da soma,
la quale mi conduce alla libertà dal gioco,
procedendo senza voltarsi indietro,
verso dove non vi è tristezza.
Questo è il modo in cui l’aratura è fatta,
la quale ha come proprio frutto il ‘senza morte’
Avendo in tal modo arato,
si è liberi da ogni sofferenza.»
***
Un altro esempio della pedagogia del Buddha è contenuto nel Verañjā Sutta, dove all’accusa di essere un tapassin (un asceta estremista), egli rispose che se si volessero rivolgere lui questo genere di critiche in maniera onesta, allora si dovrebbe dire che «il Samana Gautama è effettivamente un tapassin in quanto egli afferma che le azioni malsane di corpo, parola e mente necessitano di essere bruciate (Tapanīyāhaṁ)».
***
L’insegnamento originario del Buddha include in sé l’idea della «rinascita» — in quanto effetto ineluttabile del karma — nel momento presente. Nel seguente dialogo fra il Buddha e Aṅgulimāla, si parla esplicitamente di «ri-nascita» come metafora di trasformazione spirituale :
..(Aṅgulimāla ) si recò dal Beato e, dopo avergli reso omaggio, si sedette a un lato. Dopo aver fatto ciò, disse: «Venerabile signore, quando fu mattina mi vestii e, presa la ciotola e la veste esterna, andai a Sāvatthi per l’elemosina. Mentre girovagavo per elemosina di casa in casa in quel di Sāvatthi, vidi una certa donna in travaglio in gravi condizioni. Quando la vidi, ho pensato: “Che tormenti subiscono gli esseri, davvero che tormenti subiscono gli esseri!»
«In tal caso, Aṅgulimāla, vai a Sāvatthi e di’ a quella donna: ‘Sorella, da quando sono nato non ho mai privato di proposito un essere vivente della vita. Grazie a questa verità, tu e il bambino possiate avere pace’».
«Ma Venerabile signore, così facendo, non starei forse coscientemente mentendo? Giacché molti esseri viventi sono stati da me privati di proposito della vita».
«Allora, Aṅgulimāla, vai a Sāvatthi e di’ a quella donna: ‘Sorella, da quando sono nato nella nobile nascita (ariyāya jātiyā) non ho mai privato di proposito un essere vivente della vita’. Grazie a questa verità, che tu e il bambino possiate stare bene’».
L’inferno e paradiso come stati dell’essere
Ancora, nel Pātālasutta, (SN 36.4) troviamo questa interessante descrizione dell’inferno come di uno stato sensoriale doloroso:
«Monaci, quando il mondano non istruito afferma: ‘Nel grande oceano c’è un inferno (pātāla), egli afferma qualcosa di inesistente e irreale. L’inferno (Pātāla), o monaci, è piuttosto un sinonimo (adhivacana) per la sensazione dolorosa».
Inoltre, nel Khanasutta (Saṁyutta Nikāya 35.135), Il Buddha definisce metaforicamente sia l’inferno (nirayā) che il paradiso (saggā) nei termini dei sei sfere del contatto:
«Monaci, è un guadagno per voi, è una fortuna per voi, che abbiate ottenuto l’opportunità di vivere la vita spirituale. Ho visto, o monaci, un inferno chiamato «Sestuplice base del contatto». Lì qualsiasi forma si veda con gli occhi è indesiderabile, mai desiderabile; sgradevole, mai bella; sgradevole, mai piacevole. Qualunque suono si senta con l’orecchio… Qualunque odore si senta con il naso… Qualunque sapore si assapori con la lingua… Qualunque oggetto tattile si senta con il corpo… Qualunque fenomeno mentale si conosca con la mente è indesiderabile, mai desiderabile; non bello, mai amabile; sgradevole, mai piacevole. È un guadagno per voi, è una fortuna per voi, che abbiate ottenuto l’opportunità di vivere la vita spirituale. Ho visto, Monaci, un paradiso chiamato «Sestuplice base del contatto». Lì qualsiasi forma si veda con gli occhi è desiderabile, mai indesiderabile; bella, mai sgradevole; piacevole, mai sgradevole. Qualunque suono si senta con l’orecchio… Qualunque odore si senta con il naso… Qualunque sapore si assapori con la lingua… Qualunque oggetto tattile si senta con il corpo… Qualunque fenomeno mentale si conosca con la mente è desiderabile, mai indesiderabile; bello, mai spiacevole; piacevole, mai spiacevole.»
Allo stesso modo, il Mahāpariḷāhasutta (Saṁyutta Nikāya 56.43) definisce lo stato infernale nei termini di esperienze sensoriali sgradevoli e dolorose, paragonabile ad una grande febbre (Mahāpariḷāha). In base a questo discorsi, possiamo dire che nozioni come nascita, morte, inferno e paradiso hanno una valenza letterale ma anche figurata, esistenziale. Nel Dvāyatānupassanāsutta del Sutta Nipata leggiamo:
«Coloro che continuano a vagare ripetutamente in questo saṁsāra, che è un’alternanza tra nascita e morte, tra questa esistenza e un’altra esistenza, sono coinvolti in un viaggio che è solo una perpetuazione dell’ignoranza. L’ignoranza è la grande illusione a causa della quale si è vagato a lungo in questo saṁsāra. Gli esseri dotati di conoscenza non tornano a ripetere l’esistenza.»
Inoltre, nel Kalamasutta il Buddha spiega che anche nel caso in cui non vi fosse alcuna rinascita, la pratica del Dharma preserverebbe comunque tutto il suo potenziale liberatorio:
«Se esiste un aldilà, e se le buone e cattive azioni portano frutti e producono risultati, è possibile che con la disgregazione del corpo, dopo la morte, andrò in una buona destinazione, in un paradiso’. ‘Ma se non esiste un aldilà, e se le buone e cattive azioni non portano frutti e non producono risultati, lo stesso proprio qui, in questa vita, vivrò felice, libero dall’inimicizia e dall’avversione’.
‘Supponiamo che il male ricada in chi lo compie. Allora, poiché io non voglio il male di nessuno, come può la sofferenza affliggermi, dato che non compio azioni malvagie? ‘Supponiamo che il male non ricada in chi lo compie. Allora, proprio qui, mi sento purificato in entrambi i casi.»
Una scommessa vincente
Similmente, nell’Apannakasutta ( MN 60), il Buddha afferma che vivere in armonia con la teoria della causa ed effetto equivale a fare una scommessa che risulterà vincente in entrambi i casi, sia che essa risulti veritiera, sia che risulti falsa:
«Se esiste un altro mondo, allora alla dissoluzione del corpo, dopo la morte, questa persona riapparirà in una destinazione felice, persino nel mondo celeste. Ora, che la parola di quegli asceti e bramini e sia vera o meno, supponiamo che non ci sia un altro mondo: comunque sia, questa persona è nel qui e ora lodata dai saggi come una persona virtuosa, una persona con una visione corretta che sostiene la dottrina dell’affermazione. E d’altra parte, se c’è un altro mondo, allora questa persona ha fatto una scommessa vincente in entrambi casi: poiché è lodata dai saggi qui e ora, e poiché alla dissoluzione del corpo, dopo la morte, riapparirà in una destinazione felice, nel mondo celeste. Ha giustamente accettato e intrapreso questo insegnamento incontrovertibile in modo tale da estenderlo a entrambe le parti ed escludere l’alternativa non salutare».
L’esistenzialismo Dharmico
Da questa prospettiva, la sofferenza del presente può essere risolta solo nel presente. Il Susimasutta ci conferma che l’ottenimento della liberazione non dipenda dall’acquisizione dei poteri psichici quali la capacità di ricordare le vite precedenti. Inoltre, se esiste una vita futura oltre la morte, la sofferenza che potremmo sperimentare in quella circostanza sarà determinata dalle cause presenti. In termini di causa ed effetto, eliminando le cause della sofferenza in questa vita, ci assicuriamo anche la libertà dalla sofferenza delle eventuali vite future. Nel Bhadrakasutta (Saṁyutta Nikāya 42.11) leggiamo:
«Capofamiglia, se ti insegnassi l’origine e la cessazione della sofferenza nel passato, dicendoti ‘è così che è stato in passato’, potresti avere dubbi o incertezze al riguardo. Se ti insegnassi l’origine e la fine della sofferenza nel futuro, dicendoti “ecco come sarà in futuro”, potresti avere dubbi o incertezze al riguardo. Piuttosto io, qui seduto, insegnerò a te lì seduto, l’origine e la fine della sofferenza. Cosa ne pensi, capofamiglia? Vi sono persone qui a Uruvelakappa per le quali proveresti dispiacere, lamento, dolore, tristezza e angoscia, qualora fossero giustiziate, imprigionate, sanzionate o condannate?»
«Ci sono, signore».
«Ma ? Vi sono persone qui a Uruvelakappa per le quali non proveresti dispiacere, lamento, dolore, tristezza e angoscia, qualora fossero giustiziate, imprigionate, sanzionate o condannate?»
«Ci sono, signore».
«Qual è la causa, capofamiglia, qual è il motivo per cui, se questo dovesse accadere ad alcune persone, ciò potrebbe causarti dispiacere, mentre se accadesse ad altre no?»
«Le persone per le quali potrei provare dolore sono quelle che desidero e amo. Le persone per le quali non proverei dolore sono quelle che non desidero e non amo».
«Attraverso l’applicazione di questo principio presente che è stato visto, conosciuto nell’immediato, raggiunto e scandagliato, puoi dedurre in riguardo al passato e al futuro: ‘Tutte le sofferenze che sono sorte nel passato erano radicate e originate dal desiderio’. Perché il desiderio è la radice della sofferenza. Tutte le sofferenze che sorgeranno in futuro saranno radicate e originate dal desiderio. Perché il desiderio è la radice della sofferenza».
2.L’approccio metaforico nell’Abhidhamma , in Buddhaghosa e Vasubhandu
È interessante notare che sia l’Abhidhamma Theravāda che l’Abhidharma Sarvāstivāda e i relativi commentari, accettano come valide entrambe le opzioni, quella letterale e quella metaforica. Nel Sammohavinodanī Buddhaghosa afferma che il processo del divenire può essere interpretato in due modalità: come una concatenazione di eventi che si sviluppa, nella sua interezza nel corso di tre esistenze, oppure come un evento immediato di in un singolo istante di coscienza. Di seguito il testo tratto dall’Abhidhamma e il commento di Buddhaghosa:
“Avijjāpaccayā 𝐬𝐚𝐧̇𝐤𝐡𝐚̄𝐫𝐨, saṅkhārapaccayā viññāṇaṁ, viññāṇapaccayā 𝐧𝐚̄𝐦𝐚𝐦̇, 𝐧𝐚̄𝐦𝐚𝐩𝐚𝐜𝐜𝐚𝐲𝐚̄ 𝐜𝐡𝐚𝐭̣𝐭̣𝐡𝐚̄𝐲𝐚𝐭𝐚𝐧𝐚𝐦̇, chaṭṭhāyatanapaccayā phasso, phassapaccayā vedanā, vedanāpaccayā taṇhā, taṇhāpaccayā upādānaṁ, upādānapaccayā bhavo, bhavapaccayā jāti, jātipaccayā jarāmaraṇaṁ. Evametassa kevalassa dukkhakkhandhassa samudayo hoti.”
“L’ignoranza determina la volizione[1], la volizione condiziona la coscienza, la coscienza condiziona il mentale (nāma)[2], il mentale condiziona la sesta base, la sesta base condiziona il contatto[3], il contatto condiziona la sensazione, la sensazione condiziona la brama, la brama condiziona l’afferrare, l’afferrare condiziona l’esistere[4] l’esistere condiziona la nascita[5], la nascita condiziona invecchiamento e morte[6]; in questo modo viene a prodursi l’intera massa della sofferenza[7].”
(AbhidhammaPitaka, Vibhaṅga 6. 2. Abhidhammabhājanīya, 2.1. Paccayacatukka)
1. «Il Maestro dalla conoscenza omnicomprensiva ( Il Buddha N.d.R.), ha mostrato, nella Raccolta dei Sutta, sulla base della pluralità della coscienza, la struttura del condizionamento; ed ora, poiché la struttura del condizionamento esiste non solo in una pluralità di coscienze ma anche in una sola coscienza, egli ha affermato: «Avijjāpaccayā saṅkhāro» (l’ignoranza condiziona la volizione, al singolare!) e così via, al fine di esporre, attraverso l’Abhidhamma, la struttura del condizionamento in un singolo istante di coscienza nei suoi vari aspetti. In primo luogo, per quanto riguarda queste quattro [modalità di esposizione], si parla di saṅkhāro (volizione) [al singolare], invece che di «volizioni» [al plurale] come nella classificazione del Suttanta. Perché? Perché ci si riferisce ai singoli istanti di coscienza. [Nel Suttanta] viene spiegata la struttura del condizionamento nei termini di una serie di momenti coscienti. Qui invece viene affrontata nei termini di un singolo istante di coscienza. E poiché in un unico momento cosciente non può esserci una pluralità di volizioni, si parla di ‘volizione’ invece che di ‘volizioni’.
2.In questo contesto , nell’affermazione «vinnānapaccayā nāmam» (la coscienza condiziona il mentale), è esclusa la materia (rūpa), e ciò per via dell’inclusione di tutti gli stati all’interno di un singolo momento di coscienza. Perciò, [il mentale] è compreso all’interno di un unico momento cosciente. Inoltre, in nessun caso la coscienza si manifesta se non nel luogo di sua pertinenza ( il corpo materiale N.d.T.);
3.Poiché solo un tipo di contatto può essere incluso in un unico istante di coscienza, in questo contesto, prendendo la corrispondente base di senso come sua condizione, si dice: «il mentale condiziona la sesta base di senso», enumerando la sola base mentale invece della classica sestuplice base. Quindi, prendendo l’appropriata base di senso come sua condizione, invece di «sestuplice base», è detto: «il mentale condiziona la sesta base». Questa è la condizione appropriata per un solo tipo di contatto.
4. L’afferrare è condizione per l’esistenza (bhava) in sette modi; cioè come i sei modi condivisi da tutti gli stati: co-nascenza, reciprocità, sostegno, associazione, presenza e non scomparsa e come condizione di causa radice.
5. Per via del fatto che in questo caso con «nascita» ci si riferisce alla «caratteristica di ciò che è prodotto» (sahkhatalakkhana), l’esistenza (bhava) è il condizionante della nascita in senso figurato (pariyayena), unicamente come condizione decisiva di sostegno. Lo stesso discorso vale per la nascita, la vecchiaia e la morte.
6. Nonostante nascita, invecchiamento e morte non siano quantificabili in termini di istanti di coscienza, sono comunque inclusi, in quanto esistenti all’interno del singolo istante di coscienza. Nelle spiegazioni circa la nascita e gli altri stati, per via del fatto che qui ci si riferisce alla nascita di stati immateriali, il decadimento, l’ingrigire, la rugosità, il trapasso e la transitorietà non vengono discussi.
7. Per via del fatto che lamento, tristezza eccetera non sono tutti prodotti in un singolo istante di coscienza, e non si manifestano in tutte le occasioni in cui la coscienza si manifesta o in tutte le coscienze, per questa ragione, non sono incluse[in questa esposizione].
(Sammohavinodanī, VI (Sammohavinodani, VI)
Nell’Abhidharmakośa-bhāsya, un testo appartenente alla scuola Sarvāstivāda, Vasubandhu (IV sec. d.C.) elenca quattro forme di origine dipendente: momentaneo (Kṣaṇika); prolungato (prākarṣika), seriale (sambandhīka) e statico (āvasthikaḥ). Analogamente, negli studi biblici si riconoscono quattro livelli interpretativi: letterale, allegorico, morale e anagogico [1]. Secondo Vasubhandu,
«Si dice anche che Pratityasamutpada sia quadruplice: momentaneo o di un momento (ksanika); prolungato (prakarsika: estendentesi su molti momenti di molte esistenze); seriale (sambandhika, attraverso l’unione di cause ed effetti); e statico (dvasthika: abbraccia dodici stati, o periodi, dei cinque skandha). In che modo Pratityasamutpada è momentaneo? Quando una persona, in preda alle contaminazioni, commette un omicidio, le dodici parti si realizzano nello stesso momento: 1. la sua moha(aberrazione) è l’ignoranza (avidya); 2. la sua “volizione” (cetana) sono le samskara; 3. la sua coscienza distinta di un certo oggetto è coscienza; 4. i quattro skandha che coesistono con la coscienza sono namarupa 5. gli organi in relazione a namarupa sono i sei ayatana; l’applicazione dei sei ayatana è il contatto; 7. sperimentare il contatto è sensazione; 8. il desiderio (raga) è sete; 9. i paryavasthana associati alla sete sono l’attaccamento; 10. l’azione corporea o vocale che procede [dalla sensazione o dalla sete] è bhava 11. l’emersione di tutti questi dharma è jati 12. la loro la maturità (paripaka) è la vecchiaia; e la loro rottura è la morte.
Si dice anche che Pratityasamutpada sia momentaneo e seriale allo stesso tempo. Il Prakarana dice: “Cos’è Pratityasamutpada? Tutti i dharma condizionati (samskrta). Quali sono i dharma prodotti attraverso la dipendenza (pratityasamutpanna)? «Tutti i dharma condizionati.» Il Pratityasamutpada statico (avasthika) è composto da dodici stati (avastha), abbracciando i cinque skandha. È anche prolungato (prakarsika), estendendosi su tre esistenze consecutive…»
NOTE
1. La locuzione «significato anagogico» indica uno dei quattro significati delle Scritture (letterale, allegorico, morale e anagogico) secondo la distinzione che può rinvenirsi in Ugo di San Vittore, e, specificatamente, quello che rivela il significato più profondo e recondito delle Sacre scritture, mediante un procedimento che conduce dalle cose dell’esperienza sensibile a quella divina e, più in generale, dalle creature viventi alla loro causa prima. Codificato nei simboli dell’interpretazione esegetica dei testi sacri, il significato anagogico “conduce” al divino e alla sua visione. Gerarchicamente, nei quattro significati della Scrittura, quello anagogico viene per ultimo, dopo il significato letterale, quello allegorico e quello tropologico (o morale). Questa visione viene ripresa da Dante nel Convivio e nella lettera a Cangrande della Scala.
(Credit: Wikipedia)

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