
II. La rinascita nelle parole del Buddha
Definizione
Se volessimo definire il punabbhava in parole semplici, potremmo dire che si tratta di un processo di costante divenire alimentato dal bramare e dalle pulsioni volitive e plasmato dall’agire. Tale processo è altresì erroneamente percepito come un ente statico: sé, io e mio. Un’esperienza scambiata per un’essenza. Dissolta l’errata percezione del sé statico si avrà la fine della bramosia, delle pulsioni e dell’agire, e perciò, del punabbhava stesso. Ma cosa disse esattamente il Buddha a riguardo ?Secondo il Mahāsaccakasutta (Majjhima Nikāya 36), la comprensione del funzionamento della legge del karma e del divenire rappresentano le prime due delle tre conoscenze (tevijja) acquisite dal Bodhisatta Gotama con la realizzazione del pieno risveglio; la visione del Buddha sul questo tema è esposta nel Paṭhamabhavasutta (Anguttara Nikaya 3.76) che qui proponiamo in forma condensata:
Quindi il venerabile Ānanda si recò dal Beato … e disse lui:
«Divenire, divenire, così si dice. Ma in che modo è definibile il divenire (bhavo)?»
«Ānanda, se non vi fosse un kamma maturante nella sfera del desiderio[…] o nella sfera formale […] o nella sfera del senza forma, sarebbe possibile discernere un divenire [nella sfera] sensuale, nella sfera formale o nella sfera informale ?»
«No di certo, Signore».
«Perciò, Ānanda, Il kamma è il campo, la coscienza il seme e la bramosia il nutrimento. La coscienza degli esseri viventi, ostacolati dall’ignoranza e legati dalla brama, viene a stabilirsi in una sfera inferiore … mediana … superiore. In questo modo vi è il sorgere di una nuova esistenza (punabhavabhinibatti).»
Il secondo sutta su questo argomento, il Dutiyabhavasutta, riporta: «il kamma è il campo, la coscienza il seme e la bramosia il nutrimento. L’intenzione (cetanā), e aspirazione (patthanā) degli esseri, ostacolati dall’ignoranza e legati dalla brama, viene a stabilirsi in una sfera inferiore … mediano … superiore. In questo modo vi è il sorgere di una nuova esistenza».
Ciò significa che le azioni intenzionali (kamma), alimentate dalla bramosia, plasmano la nostra esistenza: la bramosia è il fertilizzante (sneho) o alimento (ahara) delle azioni determinanti la qualità della nostra vita in termini di felicità o sofferenza. essa è radicata nell’ignoranza della mutevolezza delle cose [1]. Come spiegato nel Milindapañha, non si tratta della trasmigrazione di un ente ma della creazione continua dell’essere in una determinata sfera spaziotemporale; nel processo di divenire, non vi è alcun passaggio da un corpo all’altro, nella stessa misura in cui una persona ripresa da una fotocamera non viene certamente proiettata dentro lo schermo televisivo dello spettatore. Quando in TV vediamo qualcuno parlare, quella persona sta trasmigrando dallo studio televisivo allo schermo del nostro televisore? Ovviamente no; la trasmissione televisiva è un fenomeno prodotto da un insieme di concause che fanno sì che l’immagine di una persona distante centinaia di chilometri possa essere riprodotta simultaneamente in un altro luogo senza che il soggetto in questione debba spostarsi da un luogo all’altro. Vediamo ora in dettaglio gli elementi citati in questo sutta: bhava, karma, bramosia, coscienza, intenzioni e i tre dhātu.
1.Bhava
«Cos’è, o monaci, l’esistenza? Vi sono tre tipi di esistenza: esistenza sensuale, esistenza formale ed esistenza non formale; Ciò o monaci, è chiamata esistenza».
Dal punto di vista linguistico, Il termine bhava deriva dal verbo bhavati, traducibile con essere, esistere o divenire. Bhava indica l’esistenza soggettivamente concepita nei termini di un Io statico e autonomo rispetto agli aggregati psicofisici, (io sono). Bhava è il risultato del processo di appropriazione (upādāna) dei cinque aggregati sui quali viene costantemente proiettata un’identità soggettiva (‘Io’) associata alla facoltà di dominio (‘mio’) sugli aggregati stessi. Ed è proprio questa costanza a dare la falsa impressione di permanenza. Essendo l’essere un prodotto dell’ignoranza e delle afflizioni mentali, si parla di esistenza condizionata, e per via del fatto che tale esistenza tende a riprodursi ciclicamente – perlomeno fino a quando ne saranno presenti le cause- è anche detto esistenza ciclica condizionata (samsara) o punabbhava, ‘ridivenire’, il quale non è altro che un processo di creazione continua del sé di momento in momento e di esistenza in esistenza. Secondo il Gotama Sutta, (SN 12.10):
«Essendoci l’attaccamento si produce l’essere, l’attaccamento determina l’essere.»
Secondo Ñāṇavīra Thera, «L’upādāna o ‘afferrarsi’ fondamentale è detto attavādaupādāna, l’afferrarsi all’idea di un sé o Io; la persona comune afferra ciò che meramente appare come il proprio ‘Io’ come tale, e, fintanto che questo stato di cose rimarrà tale, egli continuerà a percepire se stesso nei termini di ‘Io’. Questo è il bhava o ‘Essere’. Il Puthujjana sa che gli esseri nascono e muoiono, e pensando alla propria esistenza in termini di ‘Io esisto’, penserà di conseguenza ‘Io nacqui’ e anche ‘Io morirò’. Egli concepisce così un ‘Io’ al quale i concetti di nascita e morte vengono applicati. Il Puthujjhana, prendendo come proprio Io ciò che meramente appare come tale, è incapace di comprendere di essere vittima dell’afferrarsi all’Io; egli è incapace di comprendere che il suo esistere dipende dall’afferrarsi all’idea del sé (upādāna paccayā bhavo), non riuscendo a comprendere che nascita e morte dipendono da questo suo pensare di ‘essere un Io’ (bhava paccayā jāti). D’altro canto, l’Arahant è completamente libero del concetto di ‘Essere un Sé’ o ‘Io’ e non pensa in termini di ‘Io sono’. questo è bhavanirodha, la cessazione dell’essere. Non pensando nei termini di ‘Io sono’ egli non pensa nemmeno nei termini di ‘Io nacqui’ né di ‘Io morirò’. In altre parole, egli non concepisce alcun ‘sé’ o ‘Io’ ai quali associare i concetti di nascita e morte. Ciò è detto jāti·nirodhā jarāmaraṇaṃnirodha, la cessazione concettuale di nascita, invecchiamento e morte» .
Passato, presente e futuro
Perciò, l’essere o bhava include nella propria struttura fondamentale la concezione dei tre tempi: passato, presente e futuro, i quali corrispondono ai concetti di ‘Io sono stato’, ‘io sono’, ‘io sarò’, ovvero, alle nozioni di nascita, decadimento e morte. Essendo la causa conascente di nascita, decadimento e morte, il bhava funge da base per le tutte quelle forme di dukkha connesse con questi tre aspetti: tristezza (soka), angoscia (parideva), dolore psicosomatico (dukkha-domanassa) e disperazione (upayasa). Il ven. Ñāṇamoli, in un commento al capitolo sull’Origine Dipendente del Visuddhimagga, scrive:
«La rivoluzione del pensiero europeo, nata con la formula di Cartesio «cogito ergo sum» (penso, quindi sono), non è ancora terminata. Ora, non sarà probabilmente passato inosservato il parallelismo tra i due elementi di «penso» e «sono», e i due fattori dell’Origine Dipendente di cognizione ed esistenza. In altre parole, la cognizione, attivata dai fattori dinamici di desiderio e afferrarsi, pilotati e accecati dall’ignoranza, («io penso» o « cognizione aggravata dalla nozione ‘io sono»), determina l’esistere («perciò, sono»), in una complessa relazione con altri fattori relazionali tra il soggetto e l’oggetto».
Un’altra somiglianza tra il pensiero del Buddha e la filosofia occidentale messa in evidenza Ñāṇavira Thera:
«Il termine Dasein, usata da Heidegger, indica il modo di esistere dell’essere umano. Questo modo di esistenza umano è l’Essere-nel-mondo; l’essere umano è un sé al centro di un mondo di cose e di altri esseri, ed è inseparabilmente legato a questo mondo. La frase «atta ca loko ca», ‘il sé e il mondo’, si trova abbastanza spesso nei Sutta, sempre in connessione con una visione errata: il sé e il mondo sono eterni’, ‘il sé e il mondo sono non eterni’, e così via; è tuttavia ovvio che non saremo in grado di scoprire perché queste opinioni sono sbagliate finché non avremo capito cosa significhi questa frase».
2.Karma
Il Buddha paragona il Karma a un campo (khetta), a indicare che le azioni compiute determinano la qualità dell’esistenza. Il Kamma è il campo d’azione pressoché infinito per l’individuo spinto dalla bramosia; sulla base delle azioni compiute, si sperimenterà un risultato (vipāka) corrispondente; così, il ridivenire o rinascita che dir si voglia è il vipāka delle azioni alimentate dall’ignoranza e dalla bramosia, il quale potrà manifestarsi in uno dei tre momenti: nel presente (diṭṭheva dhamma), in una successiva rinascita (upapajja), oppure in un momento successivo (apara). (Nibbedhikasutta, AN 6,63). Data la vastità dell’argomento, tratteremo diffusamente del karma in un altro articolo.
3.Bramosia
Il principio alla base della relazione fra bramosia e divenire è abbastanza semplice: si diventa ciò che si brama e si nutre, nel bene e nel male. Il termine taṇhā, sovente tradotto con desiderio o bramosia, (sanscrito: tṛṣṇā), è parente dell’Inglese Thirst, e dei Latini torrĕo, torres, torrui, tostum, torrēre: disseccare, asciugare, inaridire, arrostire, abbrustolire, tostare, cuocere, ardere, bruciare. Taṇhā è un stato di arsura emotiva la cui soddisfazione assume un carattere prioritario e assoluto. Taṇhā, nasce come reazione emotiva alle sensazioni; nel bramare è implicita la volontà di riempire tale assenza; la sete, come la fame, implica sia un’assenza (avijja significa assenza di conoscenza) che una pulsione a colmare tale mancanza (sankhara, volontà). Vi sono tre tipi di bramosia: di godimento (kāma-taṇhā), di essere (bhava-taṇhā) e di non voler essere (vibhava-taṇhā) . Queste tre modalità rappresentano le tre diverse strategie adottate dall’ego al fine di convalidare se stesso: dal Sallasutta (Sn 36.6):
«Se colpito da una sensazione dolorosa, in lui sorge l’avversione verso tale esperienza; provando avversione verso la sensazione dolorosa, in lui si sviluppa la tendenza latente all’avversione verso le sensazioni dolorose; essendo colpito da una sensazione dolorosa, egli cerca godimento nei piaceri sensuali. E per quale ragione? Perché l’inesperto uomo comune non conosce altra via d’uscita dalle sensazioni dolorose che il piacere dei sensi. E nel godere del piacere dei sensi, in lui si sviluppa la tendenza latente alla passione per le sensazioni piacevoli, essendo incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione dalle sensazioni; e in lui che è incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione dalle sensazioni, si sviluppa la tendenza latente all’ignoranza in riguardo alle sensazioni neutre; sperimentando una sensazione piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; sperimentando una sensazione dolorosa, egli la sperimenta con attaccamento; sperimentando una sensazione né dolorosa né piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; Costui, o monaci, è detto ‘l’inesperto uomo comune attaccato alla nascita, a invecchiamento e morte, alla pena, al lamento, alla sofferenza, al dolore ed alla disperazione’; attaccato al dukkha, Io vi dico».
4.Coscienza
Se il karma è il campo fertile dell’essere e la bramosia è il suo nutrimento, la coscienza è il seme, in quanto una data condizione esistenziale è tale solo perché vi è coscienza, da parte dell’individuo, della propria condizione. Viññāṇa deriva dal verbo Vijānātī, discernere o distinguere, e jānātī, conoscere; viññāṇa è la chiara cognizione, la consapevolezza della presenza di un dato oggetto entro il campo della facoltà sensoriale corrispondente. Viññāṇa è la coscienza soggettiva della presenza (o della presenza di un’assenza) di un dato oggetto o esperienza; esisto, in quanto cosciente di qualcosa (me stesso). Inoltre, viññāṇa è sempre condizionata dall’ignoranza (avijjā) e dalle sinergie fisiche, verbali e mentali (saṅkhāra). È abbastanza semplice comprendere come questo processo avvenga nella vita di tutti i giorni; più difficile da digerire oltreché decisamente misteriosa e oscura è invece l’idea che questo processo non si arresti con la morte ma continui oltre essa, nella forma di una nuova aggregazione di elementi psico-fisici. È bene ricordare che dalla prospettiva buddhista, elementi psicologici e altri di natura cosmologica si mescolano in un’unica concezione circa l’origine e la sorte della nostra esistenza in questo universo.
Trasmigrazione o continuazione ?
I tradizionalisti di tutte le correnti sostengono che sia la coscienza a rinascere. Tuttavia, nel Mahatahna sankhayasutta il Buddha redarguisce duramente un monaco di nome Sati, per aver insistentemente affermato che secondo la sua comprensione dell’insegnamento del Buddha, sarebbe proprio la coscienza a rinascere:
«…il Sublime disse: È vero, come si dice, che in te, Sati è sorta una tale dannosa visione distorta: “Così comprendo io il Dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)?»
«Proprio così, signore…»
«E cosa, o Sati, sarebbe questa coscienza?»
«Signore, proprio quella che parla, prova sentimenti e sperimenta qua e là i risultati delle azioni benefiche e nocive.»
«Da chi hai tu dunque sentito, essere stolto, che io abbia esposto un simile Dharma? Non ho forse io, essere stolto, spiegato in molti modi la natura condizionata della coscienza: senza cause non può sorgere alcuna coscienza? Ma tu, essere stolto, distorci quello che ho insegnato e scavi a te stesso la fossa, causando a te stesso un grave danno. Ciò ti sarà, essere stolto, di grande danno, e sofferenza.” Quindi il Sublime si rivolse a quei monaci: “Cosa pensate, o monaci, forse che in questo monaco Sati Kevattaputta si sia acceso un qualche barlume di conoscenza circa questo Dharma e disciplina?»
«Come potrebbe essere ciò? No di certo, Signore.»
Quindi il Buddha, dopo aver sgridato il monaco Sati, ormai ammutolito e paonazzo in volto, continua la spiegazione sulla natura contingente della coscienza: «per qualsiasi ragione, voi monaci, abbia origine coscienza, proprio per quella, e solo per quella, essa viene a determinarsi. Mediante la vista e le forme viene a determinarsi coscienza visiva. Mediante l’udito e i suoni viene a determinarsi la coscienza uditiva. Mediante l’olfatto e gli odori viene a determinarsi la coscienza olfattiva. Mediante il gusto e i sapori viene determinarsi la coscienza gustativa. Mediante il tatto e i contatti, viene a determinarsi la coscienza tattile. Mediante il pensiero e le cose ha origine la coscienza mentale.»
Lo stesso concetto è ribadito nel Bijjasutta:
«Se qualcuno dicesse, ‘descriverò un venire, un andare, uno svanire, un sorgere, una crescita, un incremento o un proliferare della coscienza a prescindere dal corpo, dalle sensazioni, dall’appercezione e dalle formazioni,’ ciò sarebbe impossibile.»
Similmente, nel Niddesa(Kuddaka Nikaya, Niddesa 1.42) [5] è affermato:
«Vita, esistenza soggettiva, gioia e dolore; semplicemente, questi elementi si uniscono in un unico istante di coscienza fluttuante. gli aggregati dei morti, già dissoltisi, e quelli dei vivi, hanno tutti la stessa natura: svaniscono per non più ritornare. Non c’è nascita se la coscienza non sorge; quando questa è presente, c’è vita. Quando la coscienza dissolve, il Mondo muore.»
Il Milindapanha, ribadisce la prospettiva buddhista su questo tema:
«Venerabile Nāgasena, dove non c’è trasmigrazione può esserci continuazione?»
«Certo, Gran Re, dove non c’è trasmigrazione può esserci continuità».
«Ma venerabile Nāgasena, come può ciò che non trasmigra continuare? Fammi un esempio ».
«Gran Re, è come se qualcuno accendesse una lampada ad olio tramite un’altra lampada: forse che quella luce è trasmigrata dalla prima lampada?»
«No di certo Signore».
« Allo stesso modo, o Gran Re, non vi è trasmigrazione ma continuità ».
«Fammi un altro esempio».
«Gran Re, ricordi, quando eri piccolo, di aver appreso alcuni versetti dal tuo insegnante? »
«Certo, Signore».
«Ora, forse che quei versetti trasmigrarono dal tuo insegnante [verso di te]?»
«No di certo Signore».
«Allo stesso modo, non vi è trasmigrazione ma continuità ».
5. Le intenzioni
L’intenzione o volizione (cetanā) è ciò che ci spinge ad agire, sulla base del significato che attribuiamo agli oggetti dell’esperienza; la correlazione fra coscienza, volizioni e psicosoma nell’ambito del processo di divenire è illustrata nei seguenti passi tratti dal Cetanāsutta, SN 12.38-39.
«Ciò che si pensa(ceteti), che si progetta (pakappeti) e ciò verso cui uno inclina (anuseti) è base (ārammaṇa) per lo stabilirsi della coscienza. Quando vi è questa base, la coscienza viene a stabilirsi; quando la coscienza è stabilita e si sviluppa, vi è il sorgere di un sorgere di una nuova esistenza (punabbhavābhinibbatti); con il sorgere di una nuova esistenza, vi sono nascita, invecchiamento e morte, lamento e afflizione, dolore e sofferenza e sfinimento.»
«Ciò che si pensa, ciò che si progetta e ciò verso cui si tende è base per il mantenimento della coscienza. Quando c’è una tale base, la coscienza viene a stabilirsi. quando la coscienza è stabilita e si sviluppa, si manifesta lo psicosoma. Con lo psicosoma come condizione, nascono le sei basi di senso; con le sei basi di senso come condizione, il contatto; con il contatto come condizione, la sensazione… la brama… l’aggrapparsi… l’esistenza… la nascita; con la nascita come condizione, vi sono l’invecchiamento e morte, il dolore, il lamento, la pena, il dispiacere e la disperazione. Questa è l’origine di tutta questa massa di sofferenza.»
***
Come possiamo notare, il ridivenire è parte integrante del più ampio processo dell’Origine Dipendente di Dukkkha (Paticcasamuppada). Punabbhava non è altro che un ripetersi di bhava, il decimo anello nella catena causale dell’Origine Dipendente.
6. I tre dhātu e gli stati di meditazione
L’azione combinata di bramosia e Karma genererà una «rinascita» della coscienza in una delle tre sfere d’esistenza: la sfera sensuale, quella formale e quella priva di forma. Nella sfera sensuale (Kāmadhātu), nella quale tutti noi esseri umani (oltreché gli animali e alcune categorie di divinità) ci troviamo, si oscilla fra il desiderio di sperimentare piacere e quello di sfuggire da ciò che consideriamo indesiderabile; nella sfera formale (Rūpadhātu) in cui dimorano gli esseri assorti negli stadi meditativi con oggetto (rupajhāna) e alcune divinità, la bramosia viene temporaneamente trascesa e il meditante prova gioia non sensuale; infine, vi è l’esistenza informale (Arūpadhātu), nel quale dimorano quegli esseri la cui mente è assorbita negli stadi di arupa-samādhi (stati di meditazione senza oggetto) o le divinità di livello superiore. Lo scopo della meditazione jhāna è esattamente questo: generare gioia e benessere alternativi a quelli ottenibili tramite i sensi, grazie ai quali lo Yogin potrà rendersi indipendente dalle forme più grossolane e additive di piacere, come spiegato nel Tapussasutta.
Secondo diversi studiosi fra i quali Richard Gombrich, Sue Hamilton e Atton Jayarava, i riferimenti testuali alla rinascita nei reami celestiali non sarebbero altro che un travisamento in chiave letterale di alcune allusioni — volutamente sarcastiche nei riguardi delle idee del brahmanismo — da parte del Buddha medesimo. A questo proposito, scrive Jayarava:
«Una caratteristica curiosa della cosmologia buddhista primitiva è che essa conteneva omologie tra gli stati di meditazione e le destinazioni di rinascita (tratte dal mito vedico) in quella che potremmo definire una psico-cosmologia. Nei primi testi buddhisti jhāna (il sostantivo che indica un particolare stato di integrazione raggiunto nella meditazione) è talvolta equivalente alla rinascita in un devaloka. Il verbo per entrare in uno stato di jhāna e per rinascere è upapajjati e i suoi derivati (upapanno, upapatti). Possiamo immaginare che i buddhisti abbiano cercato similitudini e metafore per poter discutere di stati meditativi che tendono a sfidare le parole (letterali). Possiamo notare che questi stati jhāna caratterizzati da beatitudine, espansività (combinata con l’integrazione), assenza di ego, atemporalità e luce si accordano con alcuni racconti brahmanici del paradiso. E se alcuni riferimenti buddhisti alla cosmologia brahmanica sono ovviamente critici (fino a satireggiare le credenze, ad esempio l’Agañña Sutta o il Tevijjā Sutta), altre volte le divinità brahmaniche sono dirette protagoniste della narrazione. Gombrich (2009) ha sostenuto che, almeno in alcuni casi, ciò che nasce come parodia o metafora viene ipostatizzato e accettato a valore nominale: ad esempio l’idea di un brahmaloka e della dimora con Brahmā (brahmavihāra). Per accettare il brahmaloka come meta di rinascita e incorporarlo nella psico-cosmologia, i buddhisti dovettero dimenticare che i primi riferimenti positivi ad esso erano ironici.» [6]
Nāmarūpa: lo psicosoma
Inoltre, secondo il Mahanidanasutta (DN16), ciò che soggetto al ridivenire è lo psicosoma (nāmarūpa), ovvero, il corpo (rūpa) assieme ai processi mentali quali sensazione, percezione, contatto, volizione e attenzione (nāma), e alla coscienza (viññāṇa) [4]. Il seguente sutta illustra il legame di interdipendenza fra il corpo e la mente (citta) :
«Qual è l’origine del corpo? Per via del nutrimento vi è il sorgere del corpo, cessando il nutrimento, il corpo si dissolve; per via del contatto sorge la sensazione, cessando il contatto, la sensazione si dissolve; per via dello psicosoma sorge la mente (citta), cessando lo psicosoma la mente (citta) si dissolve; con il sorgere dell’attenzione sorgono i fenomeni, con lo svanire dell’attenzione i fenomeni si dissolvono.»
(Saṃyutta Nikāya 47 5. Amatavagga, 42. Samudayasutta)
Corpo mentale e stato intermedio (antarābhava)
Il Sāmaññaphalasutta esplicita la natura caduca del corpo materiale in quanto fenomeno prodotto dall’unione fra padre e madre, e sostenuto dal nutrimento materiale:
«Questo mio corpo è fisico, composto dai quattro elementi primari, prodotto da madre e padre, costruito con riso e porrige, soggetto all’impermanenza, al logorio e all’erosione, alla rottura e alla distruzione. E questa mia coscienza è attaccata ad esso, legata ad esso».
D’altro canto, lo stesso sutta parla di un corpo prodotto dalla mente o pensiero, il manomaya-kāya — una sorta di corpo astrale — che gli yogin esperti sarebbero in grado di produrre. Nei primi due versetti del Dhammapada, si parla della mente (mano) come il creatore dei dhammā ( fenomeni, atti, o stati secondo il contesto) in relazione alla legge del karma, che, come abbia visto, è un fattore chiave nel processo di divenire:
«La mente precede gli atti;
la mente è il loro principio;
essi sono creati dalla mente.
Se una persona parla o agisce con una mente impura,
la sofferenza la segue come la ruota che segue il piede del bue.»
***
Vi è una teoria, tutt’oggi diffusa in alcuni settori buddhisti dello Sri Lanka, secondo la quale sarebbe esattamente questo corpo sottile mentale a permettere la continuità dell’essere da una vita all’altra, attraverso uno stato intermedio (antarābhava) fra una vita e l’altra. La dottrina sull’esistenza intermedia era accettata da alcune scuole del Buddhismo indiano come i sarvastivāda, ma rigettata da theravāda e altri ancora. A sostegno di questa teoria viene spesso citato il seguente passo del Kutūhalasālāsutta (Samyutta Nikāya 44.9) come riferimento canonico all’esistenza intermedia:
«Maestro Gotama, quando un essere ha deposto questo corpo ma non è ancora rinato in un altro corpo, quale dichiara essere il suo carburante in quell’occasione?»
«Quando, Vaccha, un essere ha deposto questo corpo ma non è ancora rinato in un altro corpo, dichiaro che è alimentato dalla brama. Perché in quell’occasione la brama è il suo carburante».
La teoria dell’esistenza intermedia assumerà un ruolo centrale nel Buddhismo tibetano grazie alla popolarità del Libro Tibetano dei Morti, il cui vero nome è significativamente ‘La liberazione attraverso lo Stato intermedio ‘.
I sei reami d’esistenza
Secondo l’insegnamento buddhista, vi sono cinque o sei reami in cui è possibile rinascere: il reame umano, quello animale, il reame del niraya o reame infernale, quello dei preta o spiriti famelici, quello degli dei gelosi e infine il reame degli dei. Ognuno di questi reami è caratterizzato da un’afflizione peculiare: bramosia, paura, odio, insoddisfazione, gelosia e orgoglio. Per il Mahātaṇhāsaṅkhayasutta, il ridivenire necessita di tre fattori: i costituenti organici di padre e madre e la coscienza (gandhabba). Perciò, i sei reami sono effettivamente sei differenti stati d’esistenza, i quali non possono essere ridotti a meri stati d’animo, in quanto in essi è presente l’elemento corporeo, grossolano o sottile, a seconda dei casi. Quella del Buddhismo è una sorta di psico-cosmologia nella quale non vi è una distinzione netta fra l’elemento letterale e quello metaforico. Le categorie concettuali dicotomiche tipiche del pensiero occidentale, astratto e letterale, spirituale e religioso, psicologico e cosmologico, non sono per niente adatte a descrivere la peculiare concezione delle vie del Dharma, Induismo, Giainismo e Buddhismo.
Il ricordo delle esistenze precedenti
Nel Khajjanīyasutta ( SN 22.79), il ricordo delle esistenze precedenti è definito come il rammemorarsi dei cinque aggregati psicofisici:
«Monaci, tutti quegli asceti e quei bramini che rammentano le molteplici esistenze precedenti si rammentano dei cinque aggregati soggetti all’afferrarsi o di uno di essi. Ma quali sono questi cinque aggregati? ’Tale forma Io ebbi in passato’; così o monaci è semplicemente la forma che egli ricorda; ‘Tale sensazione Io ebbi in passato’, così, o monaci, è semplicemente la sensazione che egli ricorda; ‘Tale percezione io ebbi in passato’, così o monaci, è semplicemente la percezione che egli ricorda; ‘Tali intenzioni io ebbi nel passato’, così o monaci è semplicemente delle intenzioni che egli si ricorda; ‘Tale cognizione io ebbi nel passato’, così, o monaci, è semplicemente della cognizione che egli si ricorda.»
È tuttavia significativo l’approccio pragmatico tenuto dal Buddha in un dialogo con un monaco di nome Udāyin nel sutta a lui dedicato (Culasakuludāyi Sutta, MN 79) in merito alla questione del ricordo delle vite precedenti:
«Udāyin, chiunque sia in grado di ricordare una varietà di esistenze precedenti, vale a dire: una nascita, due nascite, tre nascite, quattro nascite, cinque, dieci, venti nascite, trenta nascite, quaranta nascite, cinquanta nascite, cento nascite , mille nascite, centomila nascite, e molti eoni di creazione e molti eoni di disintegrazione e molti eoni di creazione e disintegrazione: ‘Quello fu il mio nome, nacqui in tale e tal clan, di tale e tal colore; così fui nutrito, ebbi tali e tali esperienze piacevoli e dolorose; passando da quello stato venni a trovarmi in un altro stato dove ebbi tale nome, in tale e tal clan, di tal tale colore; così fui nutrito, ebbi tali e tali esperienze piacevoli e dolorose e così via fino alla fine della vita; passando da quello stato adesso sono sorto, dove posso ricordare nei dettagli una varietà di esistenze precedenti’: Costui potrebbe interrogarmi sul passato o io potrei interrogare lui sul passato[..] Però Udāyin, adesso lascia stare passato, lascia stare il futuro. Ora ti esporrò il Dhamma: Essendoci questo, vi è quello, con il manifestarsi di questo, quello si manifesta; mancando questo, non vi è quello; con il cessare di questo, vi è la cessazione di quello».

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