Nirvana & Buddhità

NIRVĀNA & BUDDHITÀ

Un delle critiche che le scuole Mahāyāna mossero alle scuole dei Nikāya ( o Śrāvakayāna, secondo la terminologia Mahāyāna ) di cui fa parte anche la scuola Theravāda, è che l’insegnamento come presentato da quest’ultimi non condurrebbe alla piena Illuminazione ma solo a un nirvāna (liberazione) incompleto. Secondo i mahayanisti, lo scopo ultimo del Buddha-Dharma sarebbe non già la liberazione personale dal dukkha del discepolo (Śrāvaka) ma il raggiungimento della piena Buddhità attraverso il sentiero del Bodhisattva. Questo è un tema ricorrente nel Saddharmapuṇḍarīkasūtra (Sutra del Loto) e in altri testi Mahayanici. Il derogativo Hīnayāna, ( Lett. ‘Veicolo inferiore’) ha origine proprio da questa idea. D’altro canto, i Theravadin affermano che non sia né necessario né utile raggiungere lo stato di un Buddha pienamente Illuminato, scopritore del Dharma e Maestro universale dello stesso, in quanto gli insegnamenti del Buddha di quest’epoca, Gotama, sono ancora diffusi, praticati e realizzabili.

Secondo i Thera, tutto ciò che dovrebbero fare i sinceri praticanti è apprendere e mettere in pratica gli insegnamenti di Gotama Buddha e liberarsi dal dukkha prima che questi insegnamenti diventino totalmente corrotti e inattuabili. Dal punto di vista Theravāda, sarebbe come volersi laureare in medicina per curare una qualunque patologia invece che rivolgersi a un medico competente presso l’ospedale più vicino e seguire le sue indicazioni terapeutiche.

Tuttavia, da una prospettiva contemporanea e antisettaria, concordiamo con quanto affermato dal Ven. Walpola Rahula quando disse che “le differenze tra Mahāyāna e Theravāda sono state eccessivamente enfatizzate dagli studiosi occidentali.” Inoltre, lo stesso Sūtra del Loto parla esplicitamente di un’unica via (ekayāna) contenente una varietà di insegnamenti o mezzi abili adatti alle specifiche capacità di ogni singolo praticante.

Similmente, un grande esponente del Buddhismo Tibetano contemporaneo, Lama Tubten Yeshe afferma: “Quando si segue il sentiero Hinayana, si è principalmente interessati alla soluzione dei propri problemi. Ci si vuole liberare dalla propria confusione, e comprendendo le cause radice della propria sofferenza, si entra nel sentiero dell’auto-realizzazione. Chiamiamo questo tipo di attitudine Hinayana. Quando alcune persone, gli studiosi per esempio, parlano dell’Hinayana, lo interpretano come una specie di filosofia minore. Si trovano spesso testi che svalutano questa dottrina filosofica. Questa è un’attitudine sbagliata. […] Hinayana e Mahayana non sono filosofie o dottrine. Naturalmente, si può dare un’interpretazione filosofica di questi sentieri, ma il loro significato reale è psicologico: hanno a che fare con gli stati della mente. La realizzazione non è una filosofia. Lo yana non può essere trovato nei libri; yana è un’attitudine mentale. Se si sviluppa un’attenzione eccezionale per i propri problemi e un intenso desiderio di esserne completamente liberi e ottenere la liberazione individuale, o nirvana, l’attitudine è quella Hinayana…”

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In merito al problema della differenziazione nirvāna e buddhità, teorizzato in primis dai Mahāsanghika (sulle cui motivazioni ci sarebbe molto da dire) e in seguito fatto proprio dalle varie correnti Mahāyāna, Richard Gombrich afferma:

I riassunti degli insegnamenti del Buddha raramente trasmettono l’uso che egli faceva delle similitudini e delle metafore. Molti sanno che nirvana/nibbana significa “spegnersi” (come una fiamma), ma probabilmente pochi sanno, o forse si chiedono, cosa si stia spegnendo. Il Buddha aveva un messaggio semplice e urgente da trasmettere ed era ingegnoso nel trovare sempre nuovi termini e analogie con cui trasmetterlo. I sutta sono pieni della sua inventiva. Quando ricorreva a modi di espressione figurativi o indiretti, si chiamava pariyāya, letteralmente “un modo di aggirare”; era “un modo di porre le cose”. La presentazione sistematica della dottrina nell’Abhidhamma si contrappone all’insegnamento per pariyāya. Il P.E.D., s.v. pariyaya, afferma: “nella terminologia dell’Abhidhamma, specificamente: pariyayena, il modo di insegnare negli Suttanta, ad hominem, discorsivamente, metodo applicato, discorso illustrato, linguaggio figurato, in contrapposizione alle affermazioni astratte e generali dell’Abhidhamma nippariyayena”.

All’inizio del capitolo precedente ho sollevato la questione dell’accuratezza con cui i sistematizzatori – l’abhidhamma e la tradizione colta Theravadin – hanno presentato il pensiero del Buddha. In questo capitolo mi occuperò dello stesso tema, anche se a volte in modo piuttosto obliquo, e solleverò domande su quanto letteralmente debbano essere interpretate varie caratteristiche dei primi testi, domande alle quali io stesso, in molti casi, non ho risposte. Il Nirvana fa parte di una struttura metaforica estesa che abbraccia l’Illuminazione e il suo contrario. Ciò che deve essere spento è l’insieme di tre fuochi: passione (o avidità), odio e illusione. Secondo la tradizione, il Buddha introdusse il concetto di questi tre fuochi nel suo terzo sermone (Vin I, 34-5 SN IV, 19).

Questo sermone è noto come Sermone del Fuoco, ma in Pali è chiamato Aditta-pariyaya, “Il modo di porre le cose come se fossero in fiamme”. Il sermone inizia con l’affermazione cruda e sorprendente: “Tutto, o monaci, è in fiamme”. Il Buddha spiega poi cosa intende per “tutto”. Si tratta di tutte le nostre facoltà (i cinque sensi più la mente), dei loro oggetti e delle loro operazioni e dei sentimenti che suscitano. Tutti questi elementi sono infiammati dai fuochi della passione, dell’odio e dell’ignoranza. Ho dimostrato in un precedente articolo (Gombrich, 1990: 17-20) che i fuochi sono tre perché il Buddha alludeva a una serie di tre fuochi che il capofamiglia bramino si impegnava a tenere accesi e a curare quotidianamente, in modo da simboleggiare la vita nel mondo, la vita come padre di famiglia. Ciò è chiarissimo in un sermone (AN IV, 41-6) in cui il Buddha dapprima contrappone i tre fuochi sacrificali ai fuochi della passione, dell’odio e dell’ignoranza e poi, con l’aiuto di giochi di parole, reinterpreta metaforicamente i primi: il fuoco orientale, ahavaniya in sanscrito, sta per i genitori; quello occidentale (garhapatya) per la famiglia e le persone a carico; quello meridionale (daksijagni) per gli uomini santi (rinuncianti e bramini) degni di ricevere offerte. È in questo senso, dice a un grasso bramino, che un capofamiglia dovrebbe curare i fuochi: sostenendo le persone.

Le generazioni successive di buddhisti non avevano motivo di interessarsi ai bramini vedici o al dibattito del Buddha con loro, quindi l’origine di questa metafora fu dimenticata. Per quanto ne so, non si trova nei commentari. Nel Mahāyāna, la metafora è stata talmente dimenticata che la passione, l’odio e l’ignoranza sono diventati i tre veleni. Spero che non sia troppo azzardato suggerire che ciò possa aver contribuito a un importante sviluppo del Mahayana: la separazione del nirvana dalla bodhi, il “risveglio” alla verità, l’Illuminazione, e l’attribuzione di un valore inferiore al primo (Gombrich, 1992d). In origine i termini nirvana e bodhi si riferiscono alla stessa cosa; si usavano semplicemente metafore diverse per la stessa esperienza. Ma la tradizione Mahāyāna li ha separati ritenendo che il nirvana si riferisse solo al tri-dosa sanscrito, all’estinzione della brama (passione e odio), con la conseguente uscita dal ciclo delle rinascite. Questa interpretazione ignora il terzo fuoco, l’ignoranza: l’estinzione dell’ignoranza è ovviamente identica, nei primi testi, a ciò che può essere espresso positivamente come gnosi, Illuminazione.*

In conclusione, vogliamo lanciare un appello all’unità (nella differenza) fra i praticanti, con le parole del Reverendo Sumana Siri Mahathera: “Il Buddha fondò il Bhikkhu sangha, non l’ordine monastico Theravāda contrapposto a quello Mahāsanghika o Dharmaguptaka”.

Tratto da: How Buddhism Began, The Conditioned Genesis of The Early Teachings

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