La Reificazione del Dharma

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BUDDHISMO FAQ (3)

D: Perché nel Buddhismo ci sono così tante scuole? Quale di esse è in linea con le idee del Buddha? 🤔

R: L’esistenza di una molteplicità di scuole è dovuta alla tendenza ad interpretare le parole del Buddha in modalità differenti. Tale tendenza era già in voga nel periodo successivo alla morte del Buddha, come evidenziato da alcuni passi del vinaya.

Dopo la scomparsa di Gautama, la preoccupazione principale dei suoi discepoli fu di preservarne l’insegnamento per le future generazioni; a tal scopo venne organizzato un “concilio” dove vennero fissati i principi cardine del pensiero del Buddha; in quello stesso concilio vennero altresì raccolti e catalogati i discorsi uditi dai vari discepoli, Ānanda in primis.

Ma qui iniziano i problemi: con l’obiettivo di rimanere il più possibile fedeli alle parole del Buddha, quei monaci posero le basi per la costituzione di un vero e proprio sistema teorico organizzato, dotato anche di un complesso insieme di norme legali indirizzate alla comunità monastica, il vinaya. Nacque così il “Buddhasasana”, la dottrina del Buddha.

A mio avviso, la criticità di questo modus operandi consiste in questo: quando si tenta di costruire un sistema omogeneo (una filosofia, un’ideologia o una religione) con idee originariamente esposte senza che vi fosse stata una preventiva organizzazione coerente delle stesse, cucendo assieme elementi provenienti da contesti differenti -parole calibrate a DOC per le persone a cui erano destinate- senza tenere conto del momento storico, del contesto originario, ecco che appaiono le naturali incongruenze tipiche della comunicazione orale, le contraddizioni interne al sistema, l’attaccamento dogmatico alle parole e i conflitti di carattere esegetico.

Le differenti scuole nacquero come un tentativo pluriforme di appianare le incongruenze “organiche” sorte a causa della reificazione del pensiero del Buddha. L’errore, seppur in buona fede, degli eredi del fondatore fu proprio quello di aver voluto incasellare concetti esposti in discorsi a braccio all’interno di un sistema dottrinale uniforme.

Perciò, le divisioni fra le diverse scuole sussistono solamente in virtù del tentativo artificioso di cristallizzare le parole del Buddha in una neo tradizione, distinta dalle altre tradizioni indiane, Brahmanesimo e Giainismo in primis. Questo espediente ha permesso la sopravvivenza del Buddhismo per i successivi 2600 anni, imbrigliandolo in una gabbia ideologica di cui è tutt’ora prigioniero.

La scolastica successiva, dall’Abhidharma in poi, ha avuto origine da queste premesse. Per questo nessuna scuola può dirsi l’unica depositaria del genuino insegnamento del Buddha e del suo significato. Con questo post ho voluto portare l’attenzione al problema del dogmatismo, prodotto nefasto della reificazione delle parole del Buddha. Un esempio pratico: nel Sigalovādasutta il Buddha afferma che essere dediti all’alcol produce una serie di effetti negativi: perdita di denaro, indebolimento delle capacità cognitive, malattie fisiche, cattiva reputazione eccetera.

Tuttavia un seguace un po’ troppo zelante probabilmente direbbe che bere alcol è sbagliato perché contrario a quanto detto dal Buddha: chi ha preso i cinque precetti e poi beve, sta ingannando i tre gioielli e perciò rinascerà nel niraya (inferno). Peraltro, gli effetti negativi a cui fa riferimento il Buddha si manifestano con un consumo prolungato e continuo. Ma secondo la scolastica tardo buddhista, il quinto precetto ( relativo al consumo di sostanze intossicati) è infranto non appena le labbra del praticante vengono a contatto con la sostanza alcolica.

Questa interpretazione porterebbe ad una conclusione logica tanto assurda quanto pericolosa: senza assumere formalmente i cinque precetti, oppure i precetti monastici, il consumo di alcolici non è un problema! Il punto è che al contrario delle tradizionalismo, storicamente caratterizzato da un malcelato fazionalismo, il Dharma (senza etichette) è un percorso universale e inclusivo, aperto a tutti senza distinzioni. Ad esempio, la persona a cui Gautama impartì quel discorso sul consumo di bevande alcoliche non era né un suo seguace, men che meno un “buddhista” nominale. Lo stesso dicasi per moltissimi altri protagonisti dei discorsi.

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