Esiste un Karma Collettivo?

«Na antaļikkhe na samuddamajjhe na pabbatānam vivaram pavissa Na vijjati so jagatip padeso yatthatthito munceyya pāpakammā.»

«Non in cielo, né in mezzo all’oceano, né in una grotta di montagna, si trova quel luogo sulla terra dove dimorando si può sfuggire (alle conseguenze) del proprio agire malsano.»

(Dhammapada 127)

COMMENTO

Tre gruppi di monaci si incamminarono per recarsi dal Buddha. Lungo la strada il primo gruppo vide un corvo che veniva bruciato vivo. Il secondo gruppo vide una donna annegare in mezzo all’oceano. Il terzo vide sette monaci imprigionati in una grotta per sette giorni. Tutti vollero sapere dal Buddha le ragioni di questi fatti. Il Buddha raccontò che il corvo, in qualità di contadino in una vita precedente, aveva bruciato vivo un bue troppo pigro; la donna aveva soffocato un cane; i monaci, come pastori in una vita precedente, avevano imprigionato un’iguana in un formicaio per sette giorni. Il Buddha aggiunse che nessuno è esente dalle conseguenze delle proprie azioni passate.
(Narada Mahathera)

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Karma significa azione, ma nel contesto specifico dell’insegnamento del Buddha, assume il senso di azione mossa da un’intenzione (cetanā), la quale può essere salutare, malsana o neutra. Prima di procedere, è bene ricordare che per il Buddhismo il karma è una legge naturale che opera in comunione con altre quattro leggi: ambientale, biologica, psicologica e fenomenologica; quest’ultima funge da fondamento per le altre quattro, permettendone il funzionamento. Il karma può essere classificato in due tipi, a seconda della loro funzione: karma vecchio ( purana ) e nuovo ( nava ); con karma vecchio ( precedente) ci si riferisce agli effetti di azioni compiute in passato sperimentati nel presente; con karma nuovo invece alle azioni del presente i cui effetti verranno sperimentati in futuro. Perciò, è bene precisare che quando si parla di «karma collettivo», in realtà ci si sta riferendo agli effetti delle azioni del vecchio karma. Questo utilizzo disinvolto del termine, che tanta confusione ha creato e continua a crearne, era già in voga ai tempi del Buddha e forse anche prima. Secondo la tradizione Theravāda, non esiste alcun karma collettivo, in quanto il karma è per definizione una scelta individuale; tuttavia, il commento al versetto 127 del Dhammapada sembra suggerire un’ipotesi differente.

DUE ANEDOOTI SUL KARMA CONDIVISO

Sebbene, per le ragioni citate più sopra, parlare di karma collettivo suoni tanto come una contraddizione in termini (come potrebbe una scelta essere individuale e collettiva allo stesso tempo?) più realisticamente si potrebbe parlare di «karma condiviso»: un’esperienza simile, condivisa da più persone coinvolte in un medesimo accadimento determinato da scelte condivise. Nel Canone Pāli vi sono alcuni esempi di «karma parzialmente condiviso». Prendiamo ad esempio le vicende personali dei primi cinque discepoli di Gautama : tutti e cinque decisero, di comune accordo di seguire Il Bodhisatta Siddhārtha nella ricerca dell’illuminazione; tutti e cinque decisero di abbandonarlo quando questo scelse di abbandonare la via della mortificazione; tutti e cinque furono in principio intenzionati a non dare retta al loro ex compagno di ascesi, ormai divenuto un Buddha e tutti insieme cambiarono idea una volta persuasi dello stesso Buddha della sua sincerità. E tuttavia, ognuno di loro realizzò l’entrata nella corrente del risveglio con modalità e tempistiche differenti: a Koṇḍañña bastò una sola esposizione del Dhamma, mentre agli altri quattro furono necessari rispettivamente due, tre, quattro e cinque. giorni di insegnamenti. Un altro esempio riguarda le tragiche vicende del Clan dei Sakya [1]i cui membri furono in larga misura massacrati dalle truppe del Generale Vidudaba, rei di aver ingannato il padre di quest’ultimo, facendo passare per principessa una schiava inviatogli come sposa. [2]

IL KARMA CONDIVISO NEL SISTEMA SARAVASTIVADA

Nell’ Abhidharmakośabhāsya, un testo della scuola Sarvastivāda, Vasubandu scrive:

«Quando molte persone si uniscono con l’intenzione di uccidere, sia in guerra, sia nella caccia, sia nel banditismo, chi è colpevole di omicidio, se uno solo di loro uccide? Poiché i soldati, ecc. concorrono alla realizzazione dello stesso effetto, tutti sono colpevoli come colui che uccide. Avendo un obiettivo comune, tutti sono colpevoli proprio come colui che tra loro uccide, perché tutti si incitano reciprocamente, non attraverso la parola, ma per il fatto stesso di essere uniti insieme per uccidere. Ma è colpevole anche chi è stato costretto con la forza a unirsi all’esercito? Evidentemente sì, a meno che non abbia preso la decisione: ‘Neanche per salvare la mia vita, ucciderò un essere vivente’.» [3]

Per queste ragioni, l’etica buddhista non si limita a favorire il benessere dell’individuo ma prende in considerazione il benessere di tutta la società, come chiaramente espresso nelle parole del Ven. Vajrārāma Piyadassi:

«I precetti sul giusto stile di vita furono ideati allo scopo di incentivare una felicità autentica per l’individuo e la società, e per promuovere relazioni armoniose fra le genti.» [4]

NOTE

1. Il clan familiare di Gautama Buddha.

2. Pratica finalizzata a suggellare il rapporto di vassallaggio fra la piccola repubblica autocratica dei Sakya e il Regno di Kosala. La storia del massacro dei Sakya è raccontata nel commento al verso 47 del Dhammapada. Da notare l’atteggiamento adottato dal Buddha in questa vicenda, il quale certamente era a conoscenza della macchinazione ordita dai membri del suo Clan ai danni del re Pasendi, un devoto seguace buddhista.

3. Vasubandhu , Abhidharma-kośa-bhāsya . Vol. 1, traduzione di Leo M. Pruden 1991.

4. The Buddha’s Ancient Path, PP. 157

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