La quarta nobile verità

𝗜𝗹 𝗻𝗼𝗯𝗶𝗹𝗲 𝗼𝘁𝘁𝘂𝗽𝗹𝗶𝗰𝗲 𝘀𝗲𝗻𝘁𝗶𝗲𝗿𝗼

«Questa, o monaci, è la nobile verità circa il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza, ovvero il nobile ottuplice sentiero: giusta visione, giusta intenzione, giusta parola, giusto agire, giusto stile di vita, giusto sforzo, giusta consapevolezza e giusto raccoglimento.»

(Dhammacakkapavattana sutta)

Il Nobile Ottuplice Sentiero (Pāli: ariya aṭṭhaṅgika magga) è il percorso ideato dal Buddha per arrivare alla cessazione del dukkha esistenziale. Ai fini didattici, il sentiero è descritto nella forma di otto elementi, ma tuttavia si tratta di una suddivisione puramente teorica; dal punto di vista pratico, si tratta di un unico processo graduale. Ciascuno degli elementi che compongono l’Ottuplice Sentiero è descritto con l’appellativo sammā, ‘giusto’ o ‘corretto’; sammā significa equilibrato, bilanciato o armonioso, in accordo al concetto della via di mezzo fra gli opposti estremi di indulgenza e mortificazione esposto nel Dhammacakkapavattana sutta.

Sammā non è un mero abbellimento linguistico ma una qualità che caratterizza tutti gli aspetti del sentiero su cui si trova la persona nobile (arya puggala) dotata della giusta visione, contrapposta al mondano (puthujjhana). Tale approccio mediano implica una forma di autodisciplina definita «samvara» o «autocontrollo»[1]. Sviluppare il samvara significa imparare a utilizzare l’attenzione sollecita per «filtrare» i dati sensoriali che si presentano alle porte dei sensi; questo implica l’esercizio della volontà o scelta attiva nei riguardi degli stimoli sensoriali come anche verso le proprie reazioni interne. La pratica del samvara sintetizza i tre aspetti etici del sentiero: giusta parola, giusta azione e giusto stile di vita. Inutile dire che questo genere di autodisciplina non si sviluppa da un giorno all’altro ma necessita di dedizione (saddha), pazienza (khanti) e impegno (viriya) protratti nel tempo.

𝗦𝗶̄𝗹𝗮, 𝘀𝗮𝗺𝗮̄𝗱𝗵𝗶 𝗲 𝗽𝗮𝗻̃𝗻̃𝗮̄

Benché il nobile ottuplice sentiero sia descritto come avente inizio dalla giusta visione, dal punto di vista del training graduale che ad esso conduce, la pratica vera e propria inizia con l’assunzione di uno stile di vita etico (sīla)[2], fondamento per lo sviluppo dei fattori meditativi, i quali a loro volta apriranno la strada alla giusta visione e al giusto pensiero (fattori paññā). Solo a questo punto si entrerà effettivamente nel sentiero ariyo, il nobile sentiero o sentiero sovra mondano.

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Da un’altra prospettiva, ognuno dei tre aspetti del sentiero svolge una funzione particolare: secondo l’analisi buddhista della mente, a livello più grossolano, vi sono le scelte e le azioni attuate sulla base di tali afflizioni, cetanā o karma; in secondo luogo, vi è la manifestazione a livello cosciente delle afflizioni, gli āsava; al livello più profondo del nostro essere vi sono le tendenze latenti alla base delle afflizioni, gli anusaya.

La funzione di sīla è di contenere gli effetti negativi che le azioni compiute sulla scorta delle afflizioni potrebbero produrre. La sua pratica consiste nell’abbandonare quelle azioni e comportamenti che hanno come risultato ulteriore sofferenza, per chi le compie e per il prossimo; la funzione della componente meditativa (samādhi) è di favorire l’abbandono delle emozioni perturbanti nel momento in cui esse si stanno manifestando; infine, la saggezza (paññā) sradicherà in via definitiva dal continuum mentale le tendenze latenti alle afflizioni.

Queste tendenze latenti o predisposizioni, paragonabili alla parte invisibile di un Iceberg, fermentano nell’incoscienza e proliferano per via dell’ignoranza. Le tendenze latenti non sono di norma percepite dalla coscienza ordinaria e tuttavia, allorché stimolate, esse si attivano dando vita alle afflizioni mentali. Per queste ragioni, la cessazione del dukkha non può essere realizzata attraverso l’analisi razionale delle cose; essa necessita di coltivare il non attaccamento tramite la visione profonda.

Coltivare il non attaccamento equivale a togliere il nutrimento vitale delle tendenze latenti, quella sopravalutazione delle cose alle quali siamo attaccati. Questa sopravalutazione dipende dalla errata percezione della loro stabilità (nicca); la percezione della stabilità determina la percezione della loro piacevolezza e affidabilità sul lungo periodo (sukha), che a sua volta determina l’attaccamento e l’ identificazione con l’oggetto (atta).Al contrario, il pacificante non coinvolgimento è il risultato dell’aver percepito la natura transitoria, insoddisfacente e impersonale di tutti i fattori condizionanti o saṅkhārā (vedasi scheda sulla prima nobile verità):

«Tutti i condizionanti sono incostanti: realizzando ciò attraverso la saggezza, ci si divincola dalla sofferenza. Questa è la via per la purificazione.»

«Tutti i condizionanti sono insoddisfacenti: realizzando ciò attraverso la saggezza, ci si divincola dalla sofferenza. Questa è la via per la purificazione.»

«Tutti i fenomeni sono non-sé: realizzando ciò attraverso la saggezza, ci si divincola dalla sofferenza. Questa è la via per la purificazione.»

(Aññā­sikoṇ­ḍaññat­thera­gāthā)

NOTE

1. Cfr. Majjhima Nikāya 95.

2. Cfr. Majjhima Nikāya 27, 36.

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