
LA SECONDA NOBILE VERITÀ
Il problema del desiderio
Riassunto degli argomenti trattati giovedì 23 novembre 2023
«Questa, o monaci, è la verità sull’origine della sofferenza: È proprio quel desiderio, conducente a nuova esistenza, che, connesso al godimento e alla passione, ricerca soddisfazione qua e là; ovvero il desiderio di piacere sensuale, il desiderio di essere[10] e di non essere[11]».
(Dhammacakkappavattanasutta, SN 56.11)
Generalmente, l’insegnamento buddistico indica nelle afflizioni mentali (kilesa), in primis la triade di bramosia, avversione e ignoranza [1], la causa del nostro soffrire. Tuttavia, il Dhammacakkapavattana sutta afferma che l’infelicità è causata da uno stato mentale particolare chiamato tanhā o desiderio.
1.ETIMO
ll termine taṇhā, (dal sanscrito tṛṣṇā), qui tradotto come desiderio, (cfr. l’inglese thirst) probabile parente dei latini torrui, tostum, torrēre: cuocere, ardere, bruciare. Si tratta uno stato di intensa impellenza emotiva la cui soddisfazione assume un carattere prioritario e assoluto; esso nasce come reazione emotiva esasperata alle esperienze sensoriali. Sinonimi di taṇhā sono chanda (aspirazione), rāga (letteralmente: ‘colore’, ossia, passione), abhijjhā (concupiscenza) e lobha (brama); quest’ultimo vocabolo è probabilmente cognato del latino libido. Lobha è considerato come una delle tre radici malsane dell’agire (karma).
Vi sono tre tipi di desiderio: kāma-taṇhā, bhava-taṇhā, vibhava-taṇhā: desiderio di gratificazione sensoriale, di essere e di non essere; queste tre forme di desiderio rappresentano le diverse strategie adottate dalla mente al fine di auto gratificarsi, di riaffermare la propria esistenza e evitare tutte quelle situazioni sentite come dolorose, sgradevoli e insoddisfacenti.
Ma a cosa si riferiva il Buddha quando diceva che il desiderio è fonte di infelicità? Il desiderio a cui fa riferimento la seconda nobile verità è il desiderare che le cose siano diverse da quelle che sono in natura. Nessuno vuole morire, invecchiare e tutti desideriamo vivere a lungo, sani e restare giovani. Nessuno ama sottostare a situazioni sgradevoli o separarsi dalle cose che si amano. Ma ciò non è ovviamente possibile: Il cambiamento è una legge naturale ineluttabile. Questo è il modo in cui il desiderio causa infelicità. Il punto è che noi non vogliamo invecchiare, ammalarci e morire; il rifiuto verso questi eventi è la causa dell’avversione. Ma perché ci ostiniamo a pensare e desiderare cose che non si possono realizzare? Per via dell’ ignoranza o incoscienza della realtà. Desiderare di essere perennemente soddisfatti tramite il godimento dei sensi, desiderare di essere, desiderare di non essere ciò che siamo è il frutto avvelenato dell’ignoranza: ignoriamo che tutto è transitorio, ignoriamo che ciò che cambia è insoddisfacente, ignoriamo che non controlliamo la natura del corpo e della mente.
Tuttavia secondo Bhikkhu Bodhi, «Se siamo schiavi del desiderio è perché lo consideriamo fonte di felicità. Considerandolo invece da una diversa angolazione, il suo potere scemerà e si avrà un’inversione di tendenza in direzione della rinuncia. Lo strumento che modifica l’angolazione è chiamato saggia riflessione (Yoniso Manasikāra). Osservare il dukkha implicito nel desiderio è uno dei modi per rivolgere la mente alla rinuncia. Passare dal desiderio alla rinuncia non equivale a passare dalla felicità all’affanno, dall’abbondanza alla privazione. Significa invece trasferirsi da una forma di piacere più grossolano, più invischiante, a una forma di felicità e pace più elevata; da una condizione di dipendenza alla padronanza di sé.»
2. IL DESIDERIO DI PIACERE
Secondo la psicologia buddhista, il piacere sensuale (kāmasukha) è il mezzo attraverso il quale l’individuo cerca di sbarazzarsi dallo stress psicofisico. Quando veniamo colpiti da una o l’altra forma di sofferenza, ci rifugiamo nel piacere sensuale, nell’ambizione verso un’esistenza migliore o nel desiderio di essere qualcuno di diverso, in un ipotetico altrove.
Questo processo è spiegato nel Sallasutta:
«Allorquando egli viene toccato da una sensazione dolorosa, in lui sorge l’avversione verso tale esperienza; Provando avversione verso quella sensazione dolorosa, in lui si sviluppa la tendenza subconscia all’avversione verso le sensazioni dolorose; essendo colpito da una sensazione dolorosa, egli cerca godimento nei piaceri sensuali. E per quale ragione? Perché l’inesperto uomo comune non conosce altra via d’uscita dalle sensazioni dolorose che il piacere dei sensi. E nel godere del piacere dei sensi, in lui si sviluppa la tendenza subconscia alla passione per le sensazioni piacevoli, essendo egli incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni. E in lui che è incapace di comprendere per come realmente sono il sorgere, lo svanire, i benefici, gli svantaggi e l’emancipazione da tali sensazioni, si sviluppa la tendenza subconscia all’ignoranza in riguardo alle sensazioni neutre. Sperimentando una sensazione piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; sperimentando una sensazione dolorosa, egli la sperimenta con attaccamento; sperimentando una sensazione né dolorosa né piacevole, egli la sperimenta con attaccamento; questo o monaci, è detto ‘l’inesperto uomo comune attaccato alla nascita, ad invecchiamento, morte, alla pena, al lamento, alla sofferenza, al dolore ed alla disperazione’; attaccato al dukkha, Io vi dico. »
3. DESIDERIO DI ESSERE
Il termine bhava deriva dal verbo bhavati, ‘essere’, ‘esistere’; bhava indica l’esistenza soggettivamente concepita nei termini di un sé statico e autonomo rispetto agli aggregati psicofisici, le ‘basi di designazione’. Essendo bhava un prodotto dell’ignoranza e delle afflizioni mentali, si parla di esistenza condizionata, e per via del fatto che tale esistenza tende a riprodursi ciclicamente (perlomeno fino a quando ne saranno presenti le cause) tale fenomeno è anche detto esistenza ciclica condizionata (samsāra) o punabbhava, ‘riessere’ (alias, rinascita) il quale non è altro che un processo di creazione continua del senso di sé nel tempo e nello spazio che si protrae di momento in momento e di esistenza in esistenza.
Bhava indica ciò che nella filosofia occidentale è chiamato essere (being). Esso dipende strutturalmente dall’afferrare gli aggregati psicofisici nei termini di un sé sostanziale e statico (Pāli: attavādaupādāna) [2]:
«Quel desiderio, quella passione, quel godimento e quella sete verso la forma, la sensazione, l’appercezione, l’intenzione e la cognizione: l’aggrapparsi (satto) a ciò, l’aggrapparsi con forza (visatto), ciò è chiamato ‘essere’».
(Sattasutta, Samyutta Nikaya III, Rādhasaṁyutta)
L’essere o bhava è perciò uno stato che deve includere nella propria struttura fondamentale la nozione di passato, presente e futuro, i quali corrispondono alle concezioni di ‘Io sono stato’, ‘io sono’, ‘io sarò’.
Il ven. Ñāṇamoli, in un commento al capitolo sull’Origine Dipendente del Visuddhimagga da lui tradotto, scrive:
«La rivoluzione del pensiero europeo, nata con la formula di Cartesio «cogito ergo sum» (penso, quindi sono), non è ancora terminata. Ora, non sarà probabilmente passato inosservato il parallelismo tra i due elementi di «penso» e «sono», e i due fattori dell’Origine Dipendente di cognizione ed esistenza. In altre parole, la cognizione, attivata dai fattori dinamici di desiderio e afferrarsi, pilotati e accecati dall’ignoranza, («io penso» o « cognizione aggravata dalla nozione ‘io sono»), determina l’esistere («perciò, sono»), in una complessa relazione con altri fattori relazionali tra il soggetto e l’oggetto».
Vi sono tre modalità d’esistenza: l’esistenza sensuale (kāmabhava), l’esistenza formale (rūpabhava) e l’esistenza informale (arūpabhava); la prima è quella in cui tutti noi ci muoviamo ordinariamente, dove la ricerca di benessere tramite il godimento dei sensi (che per il Buddhismo include anche la mente) la fa da padrone; In questa situazione, ci barcameniamo fra il desiderio di sperimentare piacere tramite la ricerca di esperienze piacevoli e il tentativo costante di sfuggire da tutto ciò che consideriamo indesiderabile. Il secondo tipo di esistenza, detta esistenza formale, è quella in cui vivono gli esseri assorti negli stadi meditativi con oggetto, (rūpajhāna) ; in questo stato, la sfera sensuale viene temporaneamente trascesa e il meditante prova gioia tramite il distacco dagli oggetti sensuali, piacevoli, dolorosi e neutri.
L’ultimo tipo di esistenza è chiamata esistenza informale, un termine tecnico che sta ad indicare la condizione dell’essere propria di quei rari individui la cui mente dimora per la maggior parte del tempo negli stadi di raccoglimento meditativo senza oggetto (arūpasamādhi).
Ma perché per il Buddhismo, l’essere o bhava rappresenta un problema? Secondo David Loy,
«La criticità fondamentale è in quel senso di mancanza, originata dal fatto che la nostra auto coscienza non è qualcosa di esistente di per sé ma bensì una costruzione della mente. Lungi dall’essere autosufficiente, il senso del sé è più simile alla superficie del mare: dipende dalle profondità che non riesce ad afferrare per via del fatto che né è una loro manifestazione. Il Buddhismo affronta questa stato di cosa decostruendo il senso del sé in gruppi di elementi fisici e mentali interconnessi fra loro. La cognizione è solo un elemento, l’effetto di condizioni e la causa di altre; i problemi cominciano quando questa cognizione interdipendente cerca di radicare se stessa, ovvero, quando essa desidera diventare incondizionata ed autonoma, o, in altre parole, reale. Se la cognizione è priva di radicamento, l’unico modo che essa ha per radicare se stessa è quella di oggettivare se stessa. Mi sforzo di diventare reale diventando qualcosa; tuttavia, il progetto edipico non potrà mai essere realizzato, in quanto vi è una contraddizione insita nel suo stesso progetto: L’ego-Sé è il tentativo della coscienza di oggettivare (rendere reale) se stessa al fine di afferrare se stessa – il che non è molto differente dal tentativo di una mano di afferrare se stessa o di un occhio di vedere se stesso. Il senso del sé così sorto è una finzione, una costruzione mentale illusoria, nella misura in cui in quell’afferrare -dettato dalla necessità della mente di radicare se stessa- ciò che viene afferrato viene confuso con colui che afferra.»
4. DESIDERIO NON ESSERE
Vibhava, è spesso tradotto in maniera letterale come ‘non essere’, ‘non esistere’ o più liberamente come ‘annichilimento di sé’ . In accordo alla psicologia del Dharma, l’individuo afferra come il proprio sé ciò che in realtà è un non sé. [3] Provando insoddisfazione verso la sua condizione esistenziale, egli è tentato dall’idea del non essere, concetto opposto e speculare all’essere.[4] Si tratta quindi di un non essere fittizio ed illusorio, che non risolve il problema fondamentale dell’essere, in quanto ne rappresenta meramente una negazione: l’Io che afferma: ‘Io non voglio essere così, voglio essere diverso’. Il problema sta proprio nell’afferrare ciò che uno non è come il proprio essere, per poi ripudiarlo, in vista di un Io sono migliore, più soddisfacente ed allettante. In questo modo, ogni tentativo di non essere, si trasforma in un’ennesima affermazione del proprio essere illusorio. Tale tentativo di liberarsi dell’essere attraverso il non essere non si fa altro che rinforzare ancor di più le catene dell’essere.
Riassumendo, il desiderio di piacere è in ultima analisi insoddisfacente per via della precarietà di ogni esperienza: desiderio di essere e di non essere sono visti come afflittivi in quanto fondati su premesse erronee.
5. DESIDERIO E ATTACCAMENTO
Un altro fattore chiave all’origine della sofferenza associato al desiderio è l’attaccamento o upādāna; upādāna significa prendere (adāna) verso di sé (upa); upādāna significa anche “combustibile”. L’attaccamento è il carburante del processo culminante nel dukkha. Il Buddha ha indicato il desiderio come il fondamento causale dell’attaccamento, (taṇhāpaccayā upādānaṃ); tale sete è definita come fertilizzante (sneho) e alimento (Āhāra) dell’essere (bhava). L’attaccamento è il processo dell’appropriazione mentale dell’oggetto desiderato, mentre l’essere (bhava) rappresenta l’identificazione con tale esperienza.
6.IL RUOLO DEL DESIDERIO NEL CONFLITTI SOCIALI
Il principio dell’origine dipendente può essere impiegato a diversi livelli o prospettive: dal punto di vista cosmologico, ma anche esistenziale, etico e sociale. A livello interiore, spiega il contraddizione esistenziale; a livello etico la contraddizione morale causa del conflitto sociale; a livello cosmologico, illustra la dinamica che conduce al doloroso ciclo delle rinascite. Da questa prospettiva, Il desiderio gioca un ruolo fondamentale anche in relazione ai conflitti sociali. L’Aggaññasutta e il Mahānidānasutta [6] affrontano il problema da due prospettive complementari; nel primo testo la bramosia e l’avidità sono viste come base della degenerazione della società, mentre il secondo collega il desiderio al processo causale il cui risultato ultimo sono il conflitto sociale e il disordine. [6]
7.DESIDERIO E PAURA
Il Lokavalokana sutta (Udāna 3.10) sottolinea inoltre la correlazione fra desiderio, essere e paura:
«Questo mondo è tormentato, e dominato dal contatto sensoriale, fraintende una malattia per il proprio sé; in qualunque modo si immagini una cosa, essa diviene altro. Alterandosi, il mondo è incatenato all’essere; afflitto dall’essere, prova tuttavia godimento nell’essere; ciò per cui si prova godimento è [fonte di] paura, ciò di cui si ha paura è [fonte di] dolore..»
8.UN APPROCCIO MODERATO
L’approccio buddhista della via mediana consiste innanzitutto nel mettere da parte i due estremi di auto indulgenza e auto mortificazione[7]; è bene ricordare che non tutte le forme di desiderio sono nocive[8], e che per il praticante laico è lecito godere dei piaceri della vita all’interno di un quadro di valori etici improntati al rispetto e alla non violenza. Per il Buddha, la liberazione dalla coercizione del desiderare compulsivo inizia con la piena comprensione del carattere insoddisfacente e impersonale di tutto ciò che è naturalmente mutevole e precario.
9.CHE FARE?
Come già evidenziato in precedenza, la meditazione è finalizzata a ridurre la sovrabbondanza di desiderio afflittivo nelle nostre vite e a coltivare uno stile di vita più equilibrato. Uno degli espedienti proposti dalla meditazione buddhista consiste nel generare uno stato di benessere alternativo a quello sperimentabile rincorrendo i propri desideri slegato dalle situazioni esterne. Sorprendentemente, il Buddha definì la pratica della meditazione sui jhāna «Una quadruplice forma di piacere in grado di condurre al disincanto, al distacco dalle passioni nocive, alla cessazione dei condizionanti, alla tranquillità, alla realizzazione, al pieno risveglio e infine alla liberazione» [9].
NOTE
1. Lobha, dosa e moha; secondo l’Aññatitthiyasutta (Anguttara Nikaya 3.68) : «La bramosia (lobha) è una afflizione minore e svanisce lentamente; l’avversione (dosa) è una grave afflizione ma svanisce rapidamente; l’ignoranza (moha) è una afflizione grave e svanisce lentamente».
2. Per questa ragione, non pare corretto tradurre bhava con divenire; la nozione di divenire tende ad enfatizzare il dinamismo dell’oggetto, mentre nel contesto specifico dell’Origine Dipendente, ci si sta evidentemente riferendo alla nozione di un sé sostanziale e statico nata dall’errata percezione della realtà. Nell’analogia dell’anello d’oro che viene trasformato in qualcos’altro, ad esempio in una moneta, la trasformazione da anello a moneta rappresenta la nozione di cambiamento, mentre il persistere della sua natura fondamentale — il suo ‘essere-oro’ — rappresenta la natura statica dell’oggetto in questione.
3. Il concetto di non sé implica l’assenza di dominio o padronanza sugli elementi che costituiscono la nostra realtà esistenziale.
4. In altre parole, egli è attratto dall’idea di non essere ciò che in realtà non è.
6. «Ānanda, la sensazione è causa del desiderio. Il desiderio è causa della ricerca. La ricerca è la causa dell’acquisizione. L’acquisizione è causa di valutazione. La valutazione è causa del bramare passionale. Il bramare passionale è causa dell’appropriazione. L’appropriazione è causa di possessività. La possessività è causa di avarizia. L’avarizia è causa di protezione. A causa della protezione si verificano molte cose nocive e malsane: l’uso della verga e della spada, i litigi, le discussioni e le dispute, le accuse, i discorsi divisivi e le menzogne.»
7. «Monaci, questi due estremi non dovrebbero essere perseguiti dal rinunciante (pabājja). Quali due? l’indulgere nel piacere sensuale, che è cosa bassa, volgare, propria dei mondani, non-nobile e priva di beneficio e l’indulgere nell’auto mortificazione, la quale è cosa dolorosa, ignobile e priva di beneficio. Abbandonando entrambi gli estremi, il Tathāgata ha realizzato la via di mezzo conducente alla visione, alla conoscenza, alla quiete, alla realizzazione, al pieno risveglio, all’emancipazione.»
8. «Questo corpo, sorella, è prodotto dal desiderio, ma è sulla base del desiderio che Il desiderio deve essere abbandonato.» (Bhikkhunīsutta, AN 4.159)
9. Cfr. Pāsādikasutta, Digha Nikya, 29 : «Vi sono quattro tipi di indulgere nel piacere che conducono al disincanto, al distacco dalle passioni nocive, alla cessazione, alla tranquillità, alla realizzazione, al pieno risveglio, alla liberazione; quali quattro?… Ecco Cunda, un monaco, distaccato dai desideri sensoriali, distaccato dai pensieri nocivi, raggiunge e dimora nel primo jhāna, caratterizzato da gioia e benessere nate dal distacco e sostenuto dal pensiero applicato e dal pensiero ripetuto [all’oggetto di meditazione]. Questa è la prima forma di indulgenza al piacere conducente al distacco..»
10. 11. Secondo Narada Mahathera, il desiderio di essere e di non essere sono riconducibili rispettivamente all’eternalismo (sassataditthi) e al nichilismo (uccedaditthi).

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