
“Tutti i condizionanti sono transitori…afflittivi…un non sé: quando ciò è compreso tramite saggezza, ci si libera dal dukkha. Questo è il sentiero per la purificazione.”
(Dhammapada)
1.ETIMOLOGIA
Il termine Pāli dukkha è composto da ‘duh’, ‘difficile’, e ‘kha’, ‘spazio’, ‘foro’, con un probabile riferimento al ‘foro assiale'[1]. Questo vocabolo, che può apparire sia come aggettivo che come sostantivo, indica una lacuna, una mancanza, un vulnus (kha), difficile da sopportare (duḥ) e quindi frustrante e doloroso. Come sostantivo, dukkha è spesso tradotto come ‘sofferenza’, ‘dolore’, ‘insoddisfazione’ eccetera; come aggettivo, esso assume il significato di ‘doloroso’, ‘insoddisfacente’, ‘frustrante’[2]. Il primo insegnamento impartito dal Buddha al gruppo dei cinque asceti, il Dhammacakkappavattanasutta ( Discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma) fu incentrato sul problema del dukkha e della sua origine, nonché alla possibilità di estinguerlo:
“Questa o monaci, è la nobile verità circa la sofferenza: la nascita è dolorosa, l’invecchiamento è doloroso, la malattia è dolorosa, la morte è dolorosa; sottostare a ciò che non si ama è doloroso, separarsi da ciò che si ama è doloroso, non ottenere ciò che si desidera è doloroso; In breve i cinque aggregati soggetti all’afferrarsi sono dolorosi.”[3]
2. ASPETTI DEL DUKKHA
Il Dukkhatāsutta (SN, 45.165) elenca tre categorie di dukkha, entro le quali le differenti manifestazioni menzionate nel Discorso di Benares sono comprese:
1. Dukkhadukkhatā: La sofferenza della dolorosità, legata al presentarsi di esperienze spiacevoli. A questo proposito, è bene ricordare che il dukkha che la pratica del Dharma si propone di eliminare è una condizione esistenziale e non una mera sensazione fisica dolorosa, al quale anche il Buddha e gli Arahant sono naturalmente soggetti [4]. Dukkha è una sovrastruttura dell’esperienza dolorosa (dukkha-vedana), una risposta emotiva alle esperienze inerentemente disagevoli della vita. E pur tuttavia, il Buddha stesso indicò nel samādhi un abile mezzo per favorire il benessere psicofisico nel qui e ora[5].
2. Vipariṇāmadukkhatā: la sofferenza legata al cambiamento non voluto di ciò che sperimentiamo soggettivamente come piacevole:
“In che modo l’afferrarsi genera apprensione? Ecco, una persona comune priva di istruzione considera il corpo … la sensazione … la percezione … le intenzioni … la cognizione … in questo modo: ‘Ciò è mio, ciò sono Io, questo è il mio sé’; ma il corpo, la sensazione, la percezione, le intenzioni e la cognizione cambiano, alterandosi; con il cambiamento e l’alterazione del proprio corpo … in lui sorgono tristezza e pena, dolore e sofferenza e disperazione”.
(Dutiyaupādāpatassanāsutta SN 5.7)
3. Saṅkhāradukkhatā: la sofferenza del condizionante (saṅkhāra). I più importanti condizionanti alla base di dukkha sono le afflizioni mentali quali l’odio, la bramosia e l’ignoranza, l’orgoglio, l’avarizia, la gelosia eccetera:
“Tutte le forme di sofferenza che si manifestano dipendono dai saṅkhāra,
Con la dissoluzione dei saṅkhāra, non sorgerà più alcuna sofferenza.
Compreso lo svantaggio di quella sofferenza determinata dai saṅkhāra,
con la pacificazione di ogni saṅkhāra, vi sarà la liberazione dalle percezioni [erronee]:
Avendo compreso le cose per come sono in realtà, vi sarà la fine del dukkha.
Per il saggio, dotato di visione ed esperto nella conoscenza,
che ha trasceso i legami di māra, non vi sarà più alcuna nuova esistenza.”
(Dvayatānupassanā Sutta, Sutta Nipāta)
Da questa prospettiva, il condizionante principale è il considerare (samanupassana) ovvero, l’afferrare mentalmente i cinque aggregati psicofisici come io e mio:
“Yā kho pana bhikkhave sā samanupassanā sankhāro so.”
“Monaci, il considerare è un condizionante.”
(SN III, Khandasamyutta, Khajjhaniyavagga, sutta 9)
Questa terza forma di dukkha ha a che vedere con il principio dell’origine dipendente (paṭicca-samuppāda). In questo caso, dukkha riguarda l’insoddisfazione implicita nell’esistenza soggettiva (bhava), nonché quelle forma di tristezza e angoscia che inevitabilmente si presenteranno con l’approssimarsi di invecchiamento e morte. Si tratta di un soffrire legato alla constatazione della propria impotenza davanti all’ineluttabilità di questi eventi:
“Monaci, agli esseri soggetti al decadimento e alla morte, sorge un tale desiderio : ‘Che noi si possa non essere soggetti al decadimento e la morte, che decadimento e morte non sopraggiungano per noi!’ Ma tale desiderio non può essere realizzato. Perciò, non ottenere ciò che si desidera è dukkha”.
(Mahāsatipaṭṭhānasutta)
3. DUKKHA COME CARATTERISTICA INERENTE ALL’ESISTERE
Come già accennato, per il Buddha, ogni forma di esistenza, (bhava) è caratterizzata dal dukkha; ciò è dovuto alla precarietà (anicca) di ciò che determina la piacevolezza di una data esperienza. Ciò non significa che per il Buddha la vita sia unicamente sofferenza ma bensì che la vita degli esseri viventi è soggetta ad essa. Questo punto di vista è stato spesso inteso erroneamente come un atteggiamento pessimista da parte del Buddha; in epoca recente, in molti, influenzati da una concezione edonistica del vivere e dal “pensiero positivo” di stampo new age, (la componente spirituale del consumismo occidentale globalizzato) hanno etichettato il Buddhismo come “pessimista” e tendente all’apatia.
Ciò è dovuto, perlomeno in parte, al proliferare di traduzioni approssimative dei dialoghi; d’altro canto, diversi noti insegnanti buddhisti contemporanei hanno cercato di rispondere a tali accuse promuovendo un’immagine del Buddhismo più “positiva” e in sintonia con la società odierna. Prendendo tali premesse (le traduzioni imprecise) come valide, questi insegnanti hanno finito involontariamente per corroborare tali opinioni erronee sul pensiero del Buddha. Tuttavia, non è corretto definire il pensiero del Buddha pessimista in quanto, oltre a esporre il problema del dukkha, egli afferma che è possibile liberarsene attraverso un metodo volto ad eliminarne gradualmente le cause.
Secondo lo scrittore singalese R.G. de. S. Wettimunny [6],
“Una delle ragioni per la quale la persona comune non può accettare che ogni sua esperienza, in qualunque momento, sia caratterizzata da dukkha, è dovuta al fatto che egli pensi al dukkha puramente nei termini di sgradevolezza manifesta, come nel caso dell’ansia, della tristezza o della disperazione. L’identificazione dell’esperienza come ‘sé’ non comporta nell’immediato, (ovvero, non necessita, simultaneamente all’identificazione) un’insoddisfazione manifesta. L’insoddisfazione si manifesterà nel tempo, presto o tardi; nella misura in cui la sgradevolezza è feconda, o che le condizioni per il manifestarsi del dukkha sono presenti, in quella misura, è presente il dukkha. Come una persona che avesse accettato un moneta falsa considerandola autentica; il tradimento [delle aspettative, N.d.T.] diverrà palese solo quando egli proverà ad acquistare qualcosa, scoprendo così che quella moneta non può essere accettata. Il possesso della moneta contraffatta, assieme alla convinzione della sua autenticità, è già un tradimento, un possesso gravido di un tradimento manifesto. “
4. GRADI DEL DUKKHA
Il dukkha può altresì manifestarsi in maniera progressiva, in molteplici aspetti: come uno stato caratterizzato da pena (soka) e tristezza (parideva) sorti come reazione ad un evento doloroso e tragico (ad esempio, nell’apprendere della morte di una persona cara) ; come afflizione psicosomatica (dukkha-domanassa) dovuta all’incapacità di governare saggiamente la pena e l’angoscia iniziali; infine, come sfinimento (upāyāsa), una resa incondizionata alla disperazione e al dolore [6]. Secondo Bhante Punnaji, questi tre aspetti di dukkha presentano delle affinità con le tre fasi dello sviluppo dello stress della teoria della sindrome generale di adattamento elaborata da Hans Selye: allarme, resistenza ed esaurimento [8].
5. LA MEDITAZIONE QUALE ANTIDOTO AL DUKKHA
Infine, vorrei aggiungere due parole sulla pratica della meditazione. I due aspetti della meditazione, samatha (calma) e vipassanā (visione profonda), sono finalizzati rispettivamente a lasciare andare e ad eliminare la sofferenza esistenziale; tramite samatha impariamo a lasciare andare il dukkha che si manifesta nel momento presente, mentre grazie alla coltivazione della visione profonda, possiamo eliminare alla radice i fattori che ne determinano l’insorgenza: bramosia, avversione, ignoranza eccetera. Il metodo principale per sviluppare la calma è la meditazione sull’attenzione al respiro; in alternativa è consigliata la meditazione camminata o quella sulla benevolenza (mettā); per sviluppare la visione profonda invece è necessario coltivare la saggia osservazione (yoniso-manasikārā) e investigare la natura di tutto ciò che si manifesta nel corpo e nella mente, come spiegato nel Satpaṭṭhānasutta.
Note:
1: Il riferimento è al foro assiale su cui venivano installate le ruote dei veicoli che gli antichi popoli nomadi usavano per spostarsi nei loro viaggi migratori che li condussero ad insediarsi nel nord dell’India. L’immagine della ruota roteante, imperniata su di un asse, rende assai bene l’idea della natura ciclica e ripetitiva dell’insoddisfazione (Samsāra), il suo costante dispiegarsi, esperienza dopo esperienza, alimentata proprio dalla vana ricerca di una soddisfazione stabile e duratura. A questo proposito, Winthrop Sargeant spiega:
“Gli antichi popoli Ariani che portarono la lingua sanscrita in India erano popoli nomadi dediti all’allevamento di cavalli e bestiame, e viaggiavano in veicoli trainati da cavalli o buoi. I prefissi Su e dus stanno ad indicare il ‘buono’ ed il ‘cattivo rispettivamente. La parola kha, che in sanscrito che significa “cielo”, “etere” o “spazio”, era originariamente la parola per “foro”, in particolare il foro assiale di uno di quei veicoli utilizzati dagli aria nei loro spostamenti. Così, sukha significava in origine “avere un foro assiale buono”, mentre con duhkha si intendeva “avere un foro assiale rovinato”, causa quindi di disagio per i viaggiatori.”
2. Ad esempio, in “sabbe saṅkhārā dukkhā” ( tutti i condizionanti sono afflittivi) o “Yad aniccam tam dukkham” (Ciò che è precario è insoddisfacente).
3. In questo contesto, il termine dukkha è usato in qualità di aggettivo anziché di sostantivo: la traduzione: “la nascita è sofferenza” (sostantivo) è quindi errata. Nella grammatica Pali, l’aggettivo si accorda sempre con il numero (singolare o plurale), il genere (maschile, neutro o femminile), ed il caso (accusativo, ablativo, nominativo etc.) del sostantivo a cui si accompagna. In questo caso specifico, il fatto che si tratti di un aggettivo è facilmente riscontrabile da una semplice osservazione delle declinazioni dei nomi e dalle desinenze:
«Idaṃ kho pana, bhikkhave, dukkhaṃ ariyasaccaṃ—/jātipi dukkhā/, /jarāpi dukkhā/, /byādhipi dukkho/, /maraṇampi dukkhaṃ/, /appiyehi sampayogo dukkho/, /piyehi vippayogo dukkho/, /yampicchaṃ na labhati tampi dukkhaṃ/—/saṃkhittena pañcupādānakkhandhā dukkhā/.»
A questo proposito, Thanissaro Bhikkhhu scrive:
“Il significato basilare della parola dukkha come sostantivo è “dolore” in contrapposizione al “piacere” (sukha). Questi, con né-dukkha-né-sukha, sono i tre tipi di sensazione (vedanā) (ad esempio, S iv 232). S v 209-10 spiega il dukkha vedanā come dolore (dukkha) e infelicità (domanassa), cioè dukkha corporeo e mentale. Ciò dimostra che il senso primario di dukkha, quando viene usato come sostantivo, è il “dolore” fisico, ma poi il suo significato si estende fino a includere il dolore mentale, l’infelicità. La stessa estensione di significato si riscontra nella parola inglese “pain”, ad esempio nella frase “the pleasures and pains of life”. Detto questo, il modo in cui dukkha viene spiegato in questo discorso mostra che qui si tratta di “dolore” nel senso di “doloroso”, ciò che è doloroso, cioè che porta dolore, sia in senso evidente che sottile. Doloroso: dukkha come aggettivo si riferisce a cose che non sono (nella maggior parte dei casi) esse stesse forme di dolore mentale o fisico, ma che sono sperimentate in modi che portano dolore mentale o fisico. Quando si dice “il parto è doloroso” ecc. la parola dukkha concorda nel numero e nel genere con ciò a cui è applicata, quindi è un aggettivo. La traduzione più comune ” è sofferenza” non rende l’idea. La nascita non è una forma di “sofferenza”, né svolge la funzione del “soffrire”, come nell’uso della parola in “egli sta soffrendo”.
4. “monaci, l’esperto nobile discepolo, allorché colpito da una sensazione dolorosa, non prova tristezza, non piange e non si lamenta; non si percuote il petto e in lui non sorge alcuno stato di confusione; egli sperimenta una sola sensazione, quella fisica, non mentale […] come se una persona venisse colpita da una freccia, ma non da una seconda freccia, sicché quella persona sperimenterebbe una sola sensazione. Allo stesso modo, l’esperto nobile discepolo, colpito da una sensazione dolorosa, non prova tristezza, non piange e non si lamenta; non si percuote il petto, e in lui non sorge alcuna confusione. Egli sperimenta una sola sensazione, quella fisica, non mentale. Sperimentando una sensazione piacevole, egli la sperimenta con distacco; sperimentando una sensazione dolorosa, egli la sperimenta con distacco; sperimentando una sensazione né dolorosa né piacevole, egli la sperimenta con distacco; costui, o monaci, è detto ‘l’esperto nobile discepolo, emancipatosi da nascita, invecchiamento, morte, da pena, lamento, da dolore e sofferenza e dalla disperazione, emancipatosi dal dukkha’, Io vi dico.“
(Sallautta, Saṃyutta Nikāya 36, Sagāthāvagga)
5. “Monaci, vi sono questi quattro samādhi·bhāvanā. Quali quattro? Monaci, vi è un samādhi·bhāvanā il quale, se coltivato e sviluppato, conduce a dimorare nel benessere qui e ora; vi è un samādhi·bhāvanā il quale, se coltivato e sviluppato, conduce all’acquisizione di conoscenza e visione; vi è un samādhi·bhāvanā il quale, se coltivato e sviluppato, conduce alla consapevolezza e alla chiara comprensione; vi è un samādhi·bhāvanā il quale, se coltivato e sviluppato, conduce alla distruzione dei veleni.”
Samādhibhāvanā Sutta
Aṅguttara Nikāya 4.41
6. Un allievo laico del venerabile Ñāṇavīra Thera.
7. “L’ignoranza, condiziona i condizionanti, i condizionanti condizionano la cognizione, la cognizione condiziona lo psicosoma, lo psicosoma condiziona le sei sfere sensoriali, le sei sfere sensoriali condizionano il contatto, il contatto condiziona la sensazione, la sensazione condiziona la bramosia, la bramosia condiziona l’afferrarsi, l’afferrarsi condiziona l’essere, l’essere condiziona la nascita. La nascita condiziona decadimento e morte, e così si manifestano tristezza e angoscia, dolore e sofferenza e sfinimento. In questo modo ha origine l’intera massa di dukkha.”
(Saṃyutta Nikāya 12 1. Buddhavagga)
8. Questa interpretazione è corroborata dal seguente passo di cui è protagonista un Ānanda in chiaro stato di alterazione per l’imminente trapasso del Buddha:
“Alaṁ, ānanda, mā soci mā paridevi, nanu etaṁ, ānanda, mayā paṭikacceva akkhātaṁ: ‘sabbeheva piyehi manāpehi nānābhāvo vinābhāvo aññathābhāvo.’”
“Basta, Ānanda, non ti affliggere, non ti dolere! non fosti tu da me avvertito quando ti dissi: “Tutto ciò che è caro e gradevole è soggetto al cambiamento, al mutamento e all’alterazione?”

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