
Riflessione per il giorno della commemorazione dei defunti
«Vita, esistenza soggettiva, gioia e dolore; semplicemente, questi elementi si uniscono in un unico istante di coscienza fluttuante. gli aggregati dei morti, già dissoltisi, e quelli dei vivi, hanno tutti la stessa natura: svaniscono per non più ritornare. Non c’è nascita se la coscienza non sorge; quando questa è presente, c’è vita. Quando la coscienza dissolve, il Mondo muore.»
– Kuddaka Nikaya, Niddesa 1.42
La morte è uno dei fenomeni più incompresi e perciò temuti dagli esseri viventi senza eccezioni. Secondo Samanthabhadra Thero, «La morte è un’esperienza ignota, ma coloro i quali si sono allenati a rimanere calmi in situazioni inconsuete e difficili sapranno rimanere calmi anche quando dovranno affrontare il momento della morte. Questo è il Dhamma che ricerchiamo. Quindi, allenatevi a rimanere calmi di fronte ad esperienze nuove e alle sfide, perché la morte è l’unica esperienza che sicuramente ci toccherà in questa vita. Dobbiamo essere capaci di osservare accuratamente in che modo la morte si stia avvicinando a noi, e ciò necessita una grande quantità di pratica nel mantenere la consapevolezza in circostanze a noi non familiari. Tramite questa pratica, impariamo a ‘morire prima della nostra morte’. Ma come possiamo evitare l’apprensione quando ci si confronta con situazioni non familiari nella vita? Attraverso la comprensione.»
AFFRONTARE LA PAURA DELLA MORTE
Il Buddha realizzò che nascita e morte sono il corollario ineluttabile del concetto di esistenza. La legge del cambiamento è in antitesi con qualunque nozione di immortalità. D’altro canto, la ricerca dell’immortalità è il sintomo profondamente radicato della paura della morte. Se questa paura ossessiva potesse essere rimossa, il problema sarebbe risolto. La pratica del ricordo della morte ha precisamente questa finalità. Per A. Jayasāro, «Nella meditazione sulla morte non rifiutiamo la mente pensante, ma la usiamo in modo disciplinato. Permettiamo alla mente di riflettere su un elenco di temi, uno per uno. Qui, il treno coerente del pensiero diretto è l’oggetto della meditazione. Iniziamo la meditazione con riflessioni più generali e poi spostiamo l’attenzione su noi stessi. È applicando a noi stessi la verità della morte che la pratica diventa profonda. Attraverso di essa otteniamo una nuova prospettiva rinfrescante sui nostri drammi personali e possiamo lasciar andare le distrazioni e la procrastinazione. Ci rendiamo conto: ‘La morte sta arrivando a me, a questa stessa vita, e non c’è via di scampo. ‘Ecco alcuni temi generali per iniziare la meditazione:
Tutti devono morire. Ogni essere che è mai nato e che mai nascerà è morto o morirà.
• Il corpo umano è così fragile, ci sono così tante cause di morte.
• La morte può arrivare a qualsiasi età, in un momento, in qualsiasi momento.
• Mentre ci concentriamo su noi stessi: La durata della mia vita diminuisce ad ogni respiro.
• La morte sta venendo da me. Senza dubbio. Quando la morte arriverà, nessuno dei miei beni o delle mie conquiste potrà aiutarmi.
• Quando arriverà la morte, i miei cari non potranno aiutarmi. Quando arriva la morte, solo il Dhamma può aiutarmi.»
IL PROBLEMA DELLA CONCEZIONE METAFISICA DEL POST- MORTEM
«Monaci, se asceti di altre scuole vi domandassero: ‘Amici, conducete voi la vita spirituale sotto la guida dell’asceta Gotama per ottenere una rinascita nel reame divino?’, in tal caso, non sareste voi inorriditi, contrariati e disgustati?»
«Certamente, Signore!»
-Devalokasutta, AN 3.18
***
Secondo la cosmologia vedica adottata e in parte riadattata dai primi buddhisti, l’universo è costituito da diversi piani d’esistenza, terreni e divini; nell’India pre buddhista, la pratica meditativa era considerata un viatico per accedere agli stati d’esistenza divini; questa concezione metafisica della meditazione venne assimilata nel sistema dottrinale buddhista costituitosi dopo la morte del Buddha. Tuttavia, per il Buddhismo, lo scopo principale della meditazione rimane sempre l’acquisizione della conoscenza liberante. Per quanto concerne quegli aspetti più marcatamente metafisici della dottrina buddhista, in ambito scolastico (Abhidhamma e commentari), si svilupparono due diverse modalità interpretative: una letterale e una metaforica. La cosa singolare del sistema buddhista è che queste due modalità hanno da sempre coesistito in un unico sistema in cui l’una non escludeva l’altra. In merito al problema relativo agli elementi metafisici del Buddhismo, come ad esempio la rinascita, come dovrebbe comportarsi un praticante occidentale del ventunesimo secolo? Oggigiorno, possiamo osservare una pluralità di approcci: dal tradizionalista al secolare, dal modernista al riformista eccetera. L’approccio tradizionalista accetta come veritiero e autentico tutto ciò che è affermato nei testi; il secolare rigetta in toto questo genere di dottrine, considerandole frutto del contesto storico e culturale in cui si originò il Buddhismo, e perciò irrilevanti nel presente contesto storico; il modernista ignora semplicemente la questione, concentrandosi sugli aspetti pratici come la meditazione; l’approccio riformista tende invece ad interpretare, ove possibile, certi assunti metafisici, in chiave simbolica e metaforica. Questa pluralità rispecchia il carattere nettamente pragmatico del pensiero del Buddha. Il Buddha-Dharma è un sistema flessibile in cui l’orto prassi ha la precedenza sull’ortodossia dottrinaria. Perciò, non vi è una risposta univoca e definitiva, ma una pluralità di pedagogie che tendono ad adattarsi alle più differenti tipologie di individui, mentalità e sensibilità culturali. Tuttavia, il Kalama Sutta offre un approccio pragmatico alla questione della rinascita:
«Quando il nobile discepolo ha reso la sua mente libera dall’inimicizia e dall’avversione, non corrotta e pura, egli acquisisce proprio in questa vita queste quattro sicurezze:
1:‘Se esiste un aldilà, e se le buone e cattive azioni portano frutti e producono risultati, è possibile che con la disgregazione del corpo, dopo la morte, andrò in una buona destinazione, in un paradiso’.
2: ‘Ma se non esiste un aldilà, e se le buone e cattive azioni non portano frutti e non producono risultati, lo stesso proprio qui, in questa vita, vivrò felice, libero dall’inimicizia e dall’avversione’.
3:‘Supponiamo che il male ricada in chi lo compie. Allora, poiché io non voglio il male di nessuno, come può la sofferenza affliggermi, dato che non compio azioni malvagie?
4: ‘Supponiamo che il male non ricada in chi lo compie. Allora, proprio qui, mi sento purificato in entrambi i casi.’ »
LA MORTE E IL PROBLEMA DEL SÉ
«Monaci, vi sono queste tre condizioni caratteristiche di ciò che è condizionato. Quali tre? vi è il sorgere, lo svanire e il cambiamento nel perdurare. Queste sono le tre condizioni caratteristiche di ciò che è condizionato».
-Anguttara Nikaya I, Tikanipata, Cullavagga, Sutta 7
Secondo Wettimunny, «In questo testo, con sorgere ci si riferisce alla nascita, con svanire alla morte, mentre quel fenomeno condizionato che nasce e muore, il quale cambia pur perdurando (nel tempo) tra la nascita e la morte è questo apparente sé, o più precisamente, il «mio sé». Tra l’apparizione di questo sé (nascita) e la sua scomparsa (morte), esso cambia e si trasforma. Ed è esattamente perché vi è un sé soggetto al cambiamento che vi è un problema. In altre parole, il problema risiede nel fatto che qualcosa viene afferrato come il proprio sé, ma a differenza di ciò che questo sé pretende di essere, esso muterà in qualcosa di diverso. Ed è precisamente in questo stato di cose che si colloca il problema del dukkha.»
NASCITA E MORTE NEL QUI E ORA
In base a questo genere di discorsi, possiamo capire che nell’ambito della filosofia pratica Buddhista, la nozione di morte ha una valenza letterale ma anche figurata, esistenziale. Da questo punto di vista, noi nasciamo e moriamo in continuazione, con ogni istante di coscienza; nel Dvāyatānupassanā Sutta del Sutta Nipata leggiamo: «Coloro che continuano a vagare ancora e ancora in questo saṁsāra, che è un’alternanza tra nascita e morte, tra questa esistenza e un’altra esistenza, sono coinvolti in un viaggio che è solo una perpetuazione dell’ignoranza. L’ignoranza è la grande illusione a causa della quale si è vagato a lungo in questo saṁsāra. Gli esseri dotati di conoscenza non tornano a ripetere l’esistenza.»
Secondo Samanthabhadra Thero, «Possiamo intendere la vita come una serie di eventi, dalla nascita alla morte. Questa vita inizia con la nascita e finisce con la morte; questi due eventi si equivalgono. La nascita non è causa di gioia e la morte non è la causa delle nostre lacrime; si tratta meramente di due eventi distinti. Tutti voi avete la capacità di porre fine alla morte immediatamente. Provate ad immaginare di essere morti e appena rinati, e che vi stia parlando per la prima volta: se vi chiedessi di parlarmi delle vostre nascite precedenti, mi direste che la rinascita è appena accaduta; se vi chiedessi della vostra morte, anche in quel caso mi rispondereste nella stessa maniera. Riuscite a capire? Nascita e morte stanno accadendo proprio ora. In questo momento voi state sognando. State facendo esperienza di questo mondo sulla base di ciò che la vostra mente percepisce attraverso le facoltà sensoriali, quali la vista, l’udito, l’olfatto eccetera. Questo mondo che state afferrando attraverso i sensi è un’illusione, e se qualcuno riuscisse a risvegliarsi dall’illusione, costui smetterebbe sia di afferrarlo che di rifiutarlo. Egli proverebbe solamente compassione per questo mondo, avendo trasceso questa grande illusione.»
ATTENZIONE: LA VIA OLTRE LA MORTE
«L’attenzione è la via del senza morte la disattenzione è la via della morte.
Gli attenti non muoiono, i disattenti sono come già morti.
Avendo compreso questa differenza riguardo all’attenzione,
I saggi gioiscono nell’attenzione, felici nella condizione propria degli esseri nobili.
Coloro i quali, costanti nella meditazione, e stabili nella perseveranza,
sperimentano l’emancipazione, l’incomparabile libertà dalla schiavitù.»
–Dhammapada 21-23
Secondo Wettimunny, «Il Buddha non disse che avrebbe sperimentato lo stato del senza-morte alla fine della sua vita; egli disse che, al pari degli altri arahant, viveva sperimentando lo stato del senza morte. Nell’esortare i cinque monaci in quel di Benares ad ascoltarlo, il Buddha descrisse se stesso in questi termini:
«Il Tathāgatha, monaci, è un arahant, completamente risvegliato; ascoltate, monaci; Il senza morte è stato raggiunto; ora vi istruirò».
Perciò, il senza morte è uno stato ottenuto e realizzato dagli arahant. «Avendolo ottenuto e realizzato» (sacchikatvā upasampajja), l’arahant «dimora sperimentandolo nel proprio corpo» (kāyena ca phusitvā viharati). Trascendere la morte non significa vivere in eterno. La morte è trascesa rimuovendo ciò a cui la nozione di morte è applicabile. L’esperienza di un arahant vivente è detta ‘senza nascita’, ‘senza invecchiamento’ e ‘senza morte’; ciò è dovuto al fatto che qualunque soggettività, -l’essere, ‘io’ o ‘sé’- alla quale le nozioni di nascita, invecchiamento e morte si riferiscono, è stata completamente sradicata in maniera definitiva: «Etam amatam anupadā cittassa’vimokkho.» «Questo è il senza-morte, ovvero: la liberazione della mente tramite il non attaccamento.» (MN 106).

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