La Dottrina del Non-sè, Walpola Rahula

LA DOTTRINA DEL NON-SÉ

Rev. Dr. Walpola Rahula

Tratto da: L’insegnamento del Buddha, Edizioni Paramtita
( A solo scopo didattico)

Generalmente le nostre parole Anima, Sé, Io o la parola sanscrita Ātman suggeriscono l’idea che esiste nell’uomo un’entità permanente, eterna e assoluta, una sostanza immutabile dietro il mondo fenomenico in perpetuo cambiamento. Secondo certe religioni, ogni individuo ha un’anima separata di questo tipo, creata da Dio e che, alla fine, dopo la morte, vive eternamente o all’inferno o in paradiso, dipendendo il suo destino eterno dal giudizio del suo creatore. Secondo altri, quest’anima passa di vita in vita, finché non è completamente purificata e alla fine si unisce a Dio o a Brahman, all’Anima Universale o Ātman, da cui in origine era stata emanata.

Questa anima o Sé nell’uomo è ciò che pensa i pensieri, che sente le sensazioni e che riceve ricompense o punizioni per le azioni buone o malvagie. Una tale concezione è chiamata l’Idea del Sé. Il Buddhismo, unico nella storia del pensiero umano, si trova a negare l’esistenza di una tale Anima, Sé o Ātman.

Per l’insegnamento del Buddha, l’idea del Sé è una credenza falsa e immaginaria, che non ha corrispondenza nella realtà ed è la causa dei pericolosi pensieri di ‘me’ e di ‘mio’, dei desideri egoisti e insaziabili, dell’attaccamento, dell’odio, della malevolenza, della vanità, dell’orgoglio, dell’egoismo, delle altre contaminazioni, impurità e dei problemi. È la fonte di tutti i nostri tormenti nel mondo, dai conflitti personali fino alle guerre tra le nazioni. In breve, si può far risalire tutto il male che c’è nel mondo a questa falsa visione.

Due idee sono radicate profondamente nell’uomo: l’auto-protezione e l’auto-conservazione. Per la sua auto-protezione, l’uomo ha creato Dio, da cui dipende per essere protetto e salvaguardato, come un bambino dipende dai genitori. Per la sua auto-preservazione, l’uomo ha concepito l’idea di un’Anima immortale o Ātman, che vivrà eternamente. Nella sua ignoranza, nella sua debolezza, nella sua paura e nel suo desiderio, l’uomo ha bisogno di queste due cose per consolarsi. Ecco perché vi si attacca profondamente e con fanatismo. L’insegnamento del Buddha non incoraggia questa ignoranza, questa debolezza, questa paura e questo desiderio, ma anzi il suo scopo è di far raggiungere all’uomo l’illuminazione, distruggendo quei prodotti mentali, estirpandoli alle radici. Secondo il Buddhismo, le nostre idee di Dio e di Anima sono false e vuote.

Anche se sono state sviluppate profondamente come teorie, non sono che delle proiezioni mentali estremamente sottili, rivestite di una complicata fraseologia filosofica e metafisica. Queste idee sono assai profondamente radicate nell’uomo, tanto vicine e care, che egli non desidera sentire né vuole comprendere un qualche insegnamento contrario. Il Buddha lo sapeva e disse testualmente che il suo insegnamento ‘era contro corrente’ (patisotagāmi), contro i desideri egoisti dell’uomo. Appena quattro settimane dopo il suo Risveglio, seduto sotto un albero di banian, pensò tra sé e sé: “Io ho compreso questa Verità, che è profonda, difficile da vedere, difficile da comprendere … comprensibile solo da un saggio … Gli uomini, che sono sommersi dalle passioni e circondati da una massa di oscurità, non possono vedere questa Verità, che è contro corrente, che è sublime, profonda, sottile e difficile da comprendere”.

Avendo in mente questi pensieri, il Buddha per un momento esitò, si domandò se sarebbe stato vano tentare di esporre al mondo la Verità che aveva appena compreso. Allora egli paragonò il mondo a uno stagno pieno di fiori di loto: in uno stagno ci sono dei loti sotto l’acqua ed altri ancora che stanno sopra l’acqua e non sono sfiorati da essa. Allo stesso modo, nel mondo ci sono uomini che stanno a livelli diversi di sviluppo. Qualcuno di loro potrebbe comprendere la Verità. Il Buddha decise dunque di insegnarla (1). La dottrina dell’Anattā o del non-sé è il risultato naturale o il corollario dell’analisi dei Cinque Aggregati e dell’insegnamento della produzione condizionata (Paticca-samuppāda) (2). Abbiamo visto nella discussione sulla Prima Nobile Verità (Dukkha) che quello che noi chiamiamo un essere o un individuo si compone di cinque aggregati e, dopo averli analizzati ed esaminati, abbiamo concluso che non esiste nulla, dietro di essi, che possa essere considerato un ‘Io’, o un ‘Ātman o un ‘Sé’ o una qualche sostanza immutabile. Tale è il metodo analitico. Lo stesso risultato si ottiene con la dottrina della Genesi Condizionata, che è il metodo sintetico secondo il quale niente nel mondo è assoluto.

Ogni cosa è condizionata, relativa e interdipendente. Questa è la teoria buddhista della relatività. Prima di avvicinarci al problema dell’Anattā propriamente detto, è utile avere una breve idea sulla Genesi Condizionata. Il principio di questa dottrina è dato da una piccola formula di quattro righe:

Quando questo c’è, quello c’è (Imasmim sati idam hoti); Apparendo questo, appare quello (Imassuppādā idam uppajjati); Quando questo non c’è, quello non c’è (Imasmim asati idam na hoti); Cessando questo, cessa quello (Imassa nirodhā idam nirujjhati) (3).

Su questo principio di condizionalità, relatività, interdipendenza, l’intera esistenza, la continuità della vita e la sua cessazione sono spiegate in una formula dettagliata che è definita ‘Paticcasarnuppāda’ la Genesi Condizionata, e consiste di dodici elementi:

1. Dall’ignoranza sono condizionate (3bis) le azioni volontarie o le formazioni karmiche (Avijjāpaccayā samkhārā).

2. Dalle azioni volontarie è condizionata la coscienza (Samkhārapaccayā vinnānam).

3. Dalla coscienza sono condizionati i fenomeni mentali e fisici (Vinhānapaccayā nāmarūpam).

4. Dai fenomeni mentali e fisici sono condizionate le sei facoltà (i cinque organi di senso più la mente) (Nāmarūpapaccayā salāyatanam). 5. Dalle sei facoltà è condizionato il contatto (sensibile e mentale) (Salāyatanapaccayā phasso).

6. Dal contatto (sensibile e mentale) è condizionata la sensazione (Phassapaccayā vedanā). 7. Dalla sensazione è condizionato il desiderio, la ‘sete’ (Vedanāpaccayā tanhā).

8. Dal desiderio (‘sete’) è condizionato l’attaccamento (Tanhāpaccayā upàdānam).

9. Dall’attaccamento è condizionato il divenire (Upādanapaccayā bhavo).

10. Dal divenire è condizionata la nascita (Bhavapaccayā/jāti).

11. Dalla nascita sono condizionati;la vecchiaia, la morte, i lamenti, il dolore, ecc. (Jātipaccayà jarāmaranam…).

E così che la vita nasce, esiste e continua. Se prendiamo questa formula al contrario arriviamo alla cessazione del processo: con la completa cessazione dell’ignoranza, le attività volontarie o le formazioni karmiche cessano; con la cessazione delle attività volontarie, la coscienza cessa … con la cessazione di nascita, vecchiaia, morte, le pene cessano. Si deve però comprendere con chiarezza che ogni fattore è allo stesso tempo condizionato (paticcasamuppanna) e condizionante (paticcasamuppāda) (4).

Quindi sono tutti relativi e interdipendenti e non c’è nulla di assoluto o indipendente; da questo deriva che per il Buddhismo non esiste una causa prima, come abbiamo già visto in precedenza (5).La Genesi Condizionata deve essere considerata come un cerchio e non come una catena (6).

La questione del libero arbitrio (liberà volontà) ha occupato un posto importante nel pensiero e nella filosofia occidentali. Ma secondo la Genesi Condizionata, questo problema non sorge e non può sorgere nella filosofia buddhista. Se la totalità dell’esistenza è relativa, condizionata e interdipendente, come può, da sola, la volontà essere libera? La volontà, che come ogni altra formazione mentale è inclusa nel Quarto Aggregato (samkhārakkhandha), è condizionata (paticcasamuppanna).

La pretesa ‘libertà’, è essa stessa, in questo mondo, condizionata e relativa, non è assolutamente libera. Quindi esiste un ‘libero arbitrio’ condizionato e relativo ma non un ‘libero arbitrio’ incondizionato e assoluto. Non c’è nulla di fisico o mentale che sia totalmente libero in questo mondo, dal momento che tutto è condizionato e relativo. Se il libero arbitrio implica una volontà indipendente da condizioni o da causa ed effetto, allora non esiste. Come può la volontà, o una qualsiasi altra cosa, apparire senza condizioni, al di fuori della legge di causa ed effetto, dal momento che la totalità dell’esistenza è condizionata, relativa e sottomessa alla legge di causa ed effetto? E ancora, l’idea del libero arbitrio è alla base delle idee di Dio, anima, giustizia, ricompensa e punizione. Non solo quello che è chiamato libero arbitrio non è libero, ma la stessa idea di libero arbitrio non è libera da condizioni.

Secondo la dottrina della Genesi Condizionata, così come nell’analisi dell’essere fatta nella dottrina dei Cinque Aggregati, l’idea di una sostanza che viva immortale nell’uomo o fuori dell’uomo e che noi possiamo chiamare ‘Àtman’, ‘Io’ o Anima o Sé o Ego, è considerata una falsa credenza, una proiezione mentale. Questa è la dottrina buddhista dell’Anattā, della Non-anima o del Non-sé. Per evitare confusione, dobbiamo dire che ci sono due tipi di verità: la verità convenzionale (sammutti-sacca, sanscr. samvrtisatya) e la verità ultima (paramattha-sacca, sanscr. paramārthasatya) (7). Quando nella vita corrente impieghiamo delle espressioni quali ‘io’, ‘tu’, ‘essere’, ‘individuo’ ecc., non diciamo delle bugie per il fatto che non esiste un sé o un essere, ma utilizziamo una verità che si conforma alle convenzioni del mondo. La verità ultima però è che in realtà non esiste un ‘io’ o un ‘essere’.

Come dice il Mahāyāna-sūtrā-lahkāra: “Una persona (pudgala) può essere considerata esistente solo in quanto designazione (prajnapati) (convenzionalmente esiste un essere), ma non in quanto realtà (o sostanza dravya)” (8).

“La negazione di un Ātman imperituro è caratteristica comune di tutti i sistemi dogmatici sia del Piccolo che del Grande Veicolo e non c’è quindi ragione di presumere che la tradizione buddhista, che è in completo accordo su questo punto, abbia deviato dall’insegnamento originario del Buddha” (9).

È dunque curioso che in tempi recenti sia stato fatto, da parte di alcuni studiosi (10), un tentativo di introdurre clandestinamente nell’insegnamento del Buddha l’idea di un Sé, assolutamente contraria allo spirito stesso del Buddhismo. Questi studiosi ammirano, rispettano e venerano il Buddha e il suo insegnamento. Essi rispettano il Buddhismo, ma non possono immaginare che il Buddha, da loro considerato come il pensatore più chiaro e più profondo, possa aver negato l’esistenza di un Ātman o di un Sé, di cui hanno fortemente bisogno. Cercano inconsciamente l’appoggio del Buddha per questo loro bisogno di esistenza eterna — di certo non in un povero piccolo sé individuale, ma in un grande Sé, maiuscolo. È molto meglio dire francamente che si crede in un Ātman o in un Sé, che il Buddha sbagliava del tutto negando l’esistenza dell’Ātman.

Ma di certo non giova a nessuno tentare di introdurre nel Buddhismo un’idea che il Buddha non ha mai accettato, per quanto si cerchi nei testi originali esistenti. Le religioni che credono in un Dio o in un’Anima non ne fanno alcun mistero, anzi lo proclamano costantemente e ripetutamente nei termini più eloquenti. Se il Buddha avesse accettato queste due idee così importanti in tutte le altre religioni, le avrebbe certamente esposte in pubblico, come ha fatto parlando di altre cose e non le avrebbe nascoste perché fossero poi riscoperte venticinque secoli dopo la sua morte. Alcuni si irritano al pensiero che, secondo l’insegnamento del Buddha sull’Anattā, il Sé che si immaginavano di avere, deve essere distrutto.

Il Buddha non l’ignorava. Una volta un monaco gli chiese: “Esiste il caso in cui qualcuno si tormenta di non trovare alcunché di permanente in lui?”

“Si, monaco, esiste” — rispose il Buddha — “Un uomo ha la seguente idea: ‘L’universo è l’Ātman, dopo la morte io sarò come quello permanente, stabile, duraturo, immutabile e io esisterò così per l’eternità’. Poi egli sente il Tathāgata o uno dei suoi discepoli predicare la dottrina che mira alla distruzione completa di tutte le opinioni speculative … e tende all’estinzione della ‘sete’, al distacco, alla cessazione, al Nirvāna. E quell’uomo pensa: ‘Io sarò annullato, io sarò distrutto, non ci sarò più’. Allora si compiange, si tormenta, si lamenta, piange battendosi il petto ed è disorientato. Quindi, bhikkhu, esiste un caso in cui uno si tormenta quando non trova qualcosa di permanente dentro di lui” (11). Un’altra volta il Buddha disse: “Bhikkhu, questa idea: io non sarò più, io non avrò più, impaurisce l’uomo comune, ignorante” (12).

Quelli che vogliono trovare un ‘Sé’ nel Buddhismo ragionano in questo modo: è vero che il Buddha analizza l’essere dividendolo in materia, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e coscienza e dichiara che nessuna di queste cose è il Sé, ma non dice che non c’è un sé nell’uomo o in qualche altra parte, al di là di questi aggregati. Questa posizione è insostenibile per due ragioni: La prima è che, secondo l’insegnamento del Buddha, un essere è composto di questi cinque Aggregati e di nient’altro. In nessuna parte del canone si dice che in un essere ci sia qualcos’altro, oltre a questi cinque Aggregati. La seconda ragione è che il Buddha ha negato categoricamente, in termini inequivocabili e più di una volta, l’esistenza di un Ātman, di un’anima, di un Sé o Ego nell’uomo o fuori di lui o in una qualche parte dell’universo.

Eccone alcuni esempi. Nel Dhammapada ci sono tre versi di estrema importanza ed essenziali nell’insegnamento del Buddha. Sono il numero 5, 6 e 7 del capitolo XX (o versi 277, 278, 279). I primi due versi dicono: “Tutte le cose condizionate sono impermanenti” (Sabbe SAMKHĀRĀ aniccā) e “Tutte le cose condizionate sono dukkha” (Sabbe SAMKHÀRÀ dukkhā). II terzo verso dice: “Tutti i dhamma sono senza sé” (Sabbe DHAMMĀ anattā) (13). Qui si deve osservare attentamente che nei primi due versi viene utilizzata la parola samkhārā (cose condizionate). Ma al suo posto, nel terzo verso, è utilizzata la parola dhamma. Perché questo terzo verso non utilizza la parola samkhārā come i primi due e utilizza la parola dhammā? Questo è il punto cruciale di tutto il problema.

‘Tutti gli stati composti’ corrisponde solamente a samkhārā ma non a dhamma.

Il termine samkhārā (14) rappresenta i cinque Aggregati, tutti condizionati, interdipendenti, cose e stati relativi, sia fisici che mentali. Se il terzo verso dicesse: “Tutti i samkhārā (cose condizionate) sono senza sé”, allora si potrebbe pensare che, sebbene le cose condizionate siano senza sé, ci potrebbe essere un sé al di là delle cose condizionate e al di là dei cinque Aggregati. Proprio per evitare questa falsa interpretazione giustamente è stata utilizzata la parola dhammā nel terzo verso. La parola dhammā ha un senso molto più vasto di samkhārā.

Non esiste un termine più ampio di dhammā in tutta la terminologia buddhista. Esso comprende infatti non solo le cose o stati condizionati, ma anche il non-condizionato, l’Assoluto, il Nirvāna. Non c’è nulla nell’universo o al di fuori di esso, buono o cattivo, condizionato o non-condizionato, relativo o assoluto, che non sia incluso in questo termine. Quindi è molto chiaro che, partendo da questa affermazione: “Tutti i dhammā sono senza un Sé”, non esiste un Sé o un Àtman non solo nei Cinque Aggregati, ma neanche fuori di essi o altrove (15).

Questo significa, secondo i Theravāda, che non esiste un Sé né nell’individuo (puggala), né nei dhammā. La filosofia buddhista del Mahāyāna ha su questo punto esattamente la stessa posizione, senza la minima differenza, mettendo l’accento sia sul dharma-nairātmya che sul pudgala-nairātmya. Nel Alagaddūpama-sutta del Majjhima-nikāya, rivolgendosi ai suoi discepoli, il Buddha disse:

“Bhikkhu, accettate una teoria dell’anima (Attavāda) che non comporti né dolori, né lamenti, né sofferenze, né afflizioni, né tribolazioni per colui che l’accetti. Ma conoscete voi, bhikkhu, una simile teoria dell’anima che non comporti né dolori, né lamenti, né sofferenze, né afflizioni, né tribolazioni per colui che l’accetti?” “Certamente no, Signore”.

“Bene, bhikkhu. Anch’io, bhikkhu, non conosco una teoria dell’anima, la cui accettazione non comporti né dolori, né lamenti, né sofferenze, né afflizioni, né tribolazioni, per colui che l’accetti” (16).

Se ci fosse stata una qualsiasi teoria dell’anima che il Buddha avesse accettato, egli l’avrebbe certamente esposta qui, poiché aveva chiesto ai bhikkhu di accettare una teoria dell’anima che non producesse sofferenza. Ma secondo il Buddha non esiste una simile teoria dell’anima e ogni teoria dell’anima, qualunque sia, per quanto raffinata e sublime possa essere, è falsa e immaginaria, crea tutta una serie di problemi e seguendola si producono dolori, lamenti, sofferenze, afflizioni e tribolazioni.

Continuando il suo discorso il Buddha disse nello stesso sutta:

“Bhikkhu, poiché non si può trovare in verità e in realtà né un sé, né un qualcosa pertinente al sé, questa speculazione: ‘l’universo è l’Ātman (Anima); dopo la morte sarò Quello, permanente, durevole, eterno immutabile ed io esisterò in questo modo per l’eternità’ non è totalmente e completamente insensata?” (17)

Qui il Buddha dice in modo assai esplicito che non si può trovare da nessuna parte un Ātman o un’Anima o un Sé nella realtà e che è insensato credere che ci sia una cosa di questo genere. Quelli che cercano un Sé nell’insegnamento del Buddha, citano alcuni esempi che essi per primi hanno tradotto male e quindi interpretato male. Uno di questi è il verso ben conosciuto: Attā hi attano nātho dal Dhammapada (XII, 4, o verso 160) che traducono: ‘il Sé è il signore del sé’ e lo interpretano come se il grande Sé sia il signore del piccolo sé. Prima di tutto, questa traduzione è errata. Attā qui non vuol dire Sé nel senso di anima. In pāli, la parola attā è generalmente usata come pronome riflessivo o indefinito, eccetto nei casi poco numerosi in cui è riferita specificamente e filosoficamente alla teoria dell’anima, come abbiamo visto in precedenza.

Ma nell’uso corrente, come nel capitolo XII del Dhammapada in cui questo verso appare e in molti altri luoghi, è usato come pronome riflessivo e si traduce con ‘me stesso’, ‘voi stessi’, ‘lui stesso’ o ‘se stesso’, ecc. (18). Poi la parola nātho non significa ‘signore’, ma ‘rifugio’, ‘sostegno’, ‘aiuto’, ‘protezione’ (19). Dunque Attā hi attano nātho significa in realtà: ‘ciascuno è il suo proprio rifugio’ o ‘ciascuno è il proprio aiuto, il proprio sostegno’. Questo non ha niente a che vedere con un’anima o un sé metafisico.

Significa semplicemente che si deve contare solo su se stessi e non sugli altri. Un altro esempio del tentativo di introdurre l’idea del sé nell’insegnamento del Buddha si trova in alcune delle interpretazioni della frase ben conosciuta Attadīpā viharatha, attasaranā anannasaranā, che è estratta dal suo contesto nel Mahāparinibbāna-sutta (20). Questa frase letteralmente significa: “Dimorate facendo di voi stessi la vostra isola (sostegno), facendo di voi stessi il vostro rifugio, (non cercando) rifugio in nessun altro” (21).

Quelli che vogliono vedere un Sé nel Buddhismo interpretano le parole attadipā e attasaranā come ‘prendendo il Sé come lampada’, ‘prendendo il Sé come rifugio’ (22). Non possiamo comprendere in pieno il senso e il significato completo di questo consiglio che il Buddha diede ad Ānanda, se non prendiamo in considerazione il contesto in cui queste parole sono state pronunciate. In quel tempo il Buddha stava nel villaggio di Beluva. Erano appena tre mesi prima della sua morte, il suo Parinirvāna. Allora aveva ottanta anni ed era sofferente per una malattia molto seria, era quasi morente (māranantika). Ma pensava che non era conveniente morire senza informare di questo i suoi discepoli, che gli erano stati vicini e cari. Così, con coraggio e determinazione, superò tutti i suoi dolori, si ristabilì dalla malattia e guarì. Ma la sua salute era precaria. Dopo la sua guarigione, un giorno che era seduto all’ombra, fuori della sua abitazione, Ānanda, il discepolo più devoto del Buddha, andò da lui, gli si sedette accanto e disse:

“Signore, io ho vegliato per la salute del Beato, ho vegliato su di lui nella sua malattia. Ma vedendo la malattia del Beato, l’orizzonte mi diventava oscuro e le mie facoltà non erano più chiare. Nonostante questo avevo una piccola consolazione: pensavo che il Beato non sarebbe trapassato senza aver lasciato delle istruzioni per il Sangha”.

Allora il Buddha, pieno di compassione e di umana partecipazione, parlò con amore al suo devoto e amato discepolo:

“Ānanda, che cosa si attende da me l’Ordine del Sangha? Io ho insegnato il Dhamma (la Verità) senza far distinzione tra essoterico ed esoterico. Per quel che concerne la verità, il Tathāgata non ha nulla di simile ad un ‘pugno chiuso’ (ācariya-mutthi). Certamente, Ānanda, se c’è qualcuno che pensa di poter dirigere il Sangha e che il Sangha possa dipendere da lui, che sia lui a dare le proprie istruzioni. Ma il Tathāgata non ha una simile idea. Perché allora dovrebbe lasciare delle istruzioni concernenti il Sangha? Ānanda, ora io sono vecchio, ho ottanta anni. Come un carro usato ha bisogno di continue riparazioni per essere ancora utilizzabile, mi sembra che allo stesso modo il corpo del Tathāgata abbia bisogno di riparazioni continue. Dunque, Ānanda, dimorate facendo di voi stessi la vostra isola (sostegno), facendo di voi stessi e di nessun altro il vostro rifugio, facendo del Dhamma la vostra isola (sostegno), del Dhamma il vostro rifugio e di niente altro” (23).

Quello che il Buddha desiderava esprimere ad Ānanda è perfettamente chiaro. Ānanda era triste e depresso. Pensava che i monaci sarebbero rimasti soli, senza aiuto, senza rifugio, senza un capo dopo la morte del loro grande maestro. Così il Buddha lo consolò dandogli coraggio e fiducia, dicendo che dovevano dipendere solo da se stessi e dal Dhamma che aveva insegnato e non da qualcuno o da qualcos’altro. Qui il problema dell’Ātman o di un Sé metafisico è assolutamente fuori questione.

Poi il Buddha spiegò ad Ānanda come si possa essere la propria isola o rifugio e come si possa fare del Dhamma la propria isola o rifugio: per mezzo della coltivazione della (22)consapevolezza nei riguardi del corpo, delle sensazioni, della mente e degli oggetti mentali (i quattro Satipatthāna).

Solo l’ultima frase è tradotta letteralmente; il resto della storia è riassunto brevemente secondo il Mahāparinibbāna-sutta. Anche qui non c’è alcuna parola relativa ad un Àtman o ad un Sé. C’è ancora un altro esempio utilizzato da chi tenta di trovare un Àtman nell’insegnamento del Buddha. Il Buddha una volta stava seduto sotto un albero in una foresta sulla strada che da Uruvelà conduce a Benares. Quel giorno trenta amici, tutti giovani principi, andarono a fare una gita nella stessa foresta con le loro giovani mogli. Un principe, che non era sposato, portò con sé una prostituta. Mentre gli altri si divertivano, questa sottrasse alcuni oggetti di valore e sparì. Nel cercarla nella foresta, videro il Buddha seduto sotto un albero e gli chiesero se avesse visto una donna. Il Buddha chiese loro il perché e quelli glielo spiegarono. Il Buddha chiese ancora: “Che cosa pensate, giovani, cosa è meglio per voi: cercare una donna o cercare voi stessi?” (25).

Anche qui si tratta di un problema semplice e naturale e non c’è alcuna ragione di introdurre in questo contesto l’idea lontana di un metafisico Ātman o Sé. Quelli risposero che era meglio per loro cercare se stessi. Il Buddha allora chiese loro di sedere e spiegò il Dhamma. Nelle parole che disse loro, e che si trovano nei testi originali, non c’è alcuna menzione dell’Ātman.

Molto è stato scritto sul silenzio del Buddha allorché un certo paribbājaka (un asceta itinerante) di nome Vacchagotta ‘gli chiese se ci fosse o non ci fosse un Ātman. Ecco la storia: Vacchagotta va dal Buddha e chiede:

“Venerabile Gotama, c’è un Ātman?” Il Buddha rimane in silenzio.

“Allora, venerabile Gotama, non c’è un Ātman?” Il Buddha rimane ancora in silenzio. Vacchagotta si alza e va via. Dopo che il paribbājaka è andato via, Ānanda chiede al Buddha perché non abbia risposto alla domanda di Vacchagotta. Il Buddha spiega la sua posizione:

“Ānanda, quando Vacchagotta l’itinerante mi ha posto la questione: ‘c’è un Sé?’, se io avessi risposto: ‘c’è un Sé’, allora, Ānanda, quello lì si sarebbe schierato dalla parte di quei reclusi e brāhmana che sostengono la teoria eternalista (sassatavāda).

“E, Ānanda, quando Vacchagotta mi ha posto la questione: ‘non c’è un Sé?’ se io avessi risposto: ‘non c’è un Sé’, allora quello si sarebbe schierato dalla parte di quei reclusi o brāhmana che sostengono la teoria nichilista (ucchedavāda) (26).

“E ancora, Ānanda, quando Vacchagotta mi ha posto la questione: ‘c’è un Sé?’, se io avessi risposto: ‘c’è un Sé’, questo sarebbe stato in accordo con la mia conoscenza che tutti i dhammā sono senza Sé?” (27).

“Certamente no, Signore”.

“E ancora, Ànanda, quando Vacchagotta mi ha posto la questione: ‘non c’è un Sé?’, se io avessi risposto: ‘non c’è un Sé’, questo avrebbe creato una confusione maggiore al già confuso Vacchagotta (28).

Per cui avrebbe pensato: prima io avevo un Ātman (sé), ma adesso non ce l’ho più” (29).

Ora dovrebbe essere chiaro perché il Buddha rimase in silenzio. Ma sarà ancora più chiaro se prendiamo in considerazione tutto il contesto e il modo con cui il Buddha tratta le domande e chi le pone — cosa che è totalmente trascurata da chi ha discusso questo problema. Il Buddha non era un computer che rispondeva a qualsiasi domanda rivoltagli senza considerare l’interlocutore. Era un maestro concreto, pieno di compassione e saggezza. Non rispondeva alle domande per mostrare la sua conoscenza e la sua intelligenza, ma per aiutare l’altro sulla via della realizzazione. Parlava sempre alle persone avendo chiaro in mente il loro livello di sviluppo, le loro tendenze, i loro temperamenti, i loro caratteri, la loro capacità di comprendere un particolare problema (30).

Secondo il Buddha, ci sono quattro modi di rispondere ai problemi: 1) ad alcuni si deve rispondere direttamente; 2) ad altri si deve rispondere analizzandoli; 3) ad altri ancora si deve rispondere con altre domande; 4) infine ci sono dei problemi che devono essere lasciati da parte (31). Ci possono essere molti modi per lasciare da parte un problema. Uno è di dire che un problema particolare non ha una risposta o una spiegazione, come il Buddha disse allo stesso Vacchagotta in più di un’occasione, quando quei famosi problemi: se l’universo sia eterno o (27)

Allo stesso modo aveva risposto a Mālunkyaputta e ad altri. Non poteva però dire la stessa cosa per quanto riguarda il problema dell’esistenza o della non-esistenza di un Ātman, poiché ne aveva sempre discusso e lo aveva spiegato. Non poteva dire ‘c’è il sé’, perché è contrario alla sua conoscenza che ‘tutti i dhammā sono senza sé’. Non voleva nemmeno dire ‘non c’è un sé’, perché questo avrebbe, senza necessità e senza ragione, reso più confuso e più turbato il povero Vacchagotta, già confuso su un problema simile, come aveva ammesso in precedenza. Non era ancora in grado di comprendere l’idea dell’Anattā.

Quindi, lasciare da parte questo problema restando in silenzio era il modo più saggio di agire in questo caso particolare. Non dobbiamo dimenticare che il Buddha conosceva Vacchagotta già da lungo tempo. Non era la prima volta che questo asceta itinerante veniva a trovarlo per porgli delle domande. Il saggio e compassionevole maestro pensava spesso a questo cercatore confuso e gli mostrava grande considerazione. Si trovano nei testi pāli numerosi riferimenti a questo stesso Vacchagotta e al fatto che si recasse sovente dal Buddha e dai suoi discepoli e ponesse loro più volte lo stesso tipo di domande che lo tormentavano e lo ossessionavano (33).

Il silenzio del Buddha sembra avere avuto effetto su Vacchagotta più di un’altra discussione o risposta eloquente (34). Alcuni intendono il ‘sé’ come ‘mente’ o ‘coscienza’. Ma il Buddha dice che è meglio per un uomo considerare il suo corpo fisico come il sé piuttosto che la mente, il pensiero o la coscienza, perché il primo sembra essere più solido di questi ultimi, in quanto che la mente, il pensiero o la coscienza (citta, mano, vinnāna) cambiano costantemente giorno e notte, persino più velocemente del corpo (kāya) (35). È la vaga sensazione dell”IO SONO’ che crea l’idea del sé, che non ha alcuna realtà corrispondente e il vedere questa verità significa realizzare il Nirvāna, cosa che non è molto facile.

Nel Samyuita-nikāya (36) si trova una conversazione tra un bhikkhu di nome Khemaka e un gruppo di bhikkhu che chiarisce questo punto. Questi bhikkhu domandano a Khemaka se vede nei Cinque Aggregati un sé o qualche cosa che appartiene a un sé. Khemaka risponde di no. Allora i bhikkhu dicono che se fosse così egli dovrebbe essere un Arahant libero da tutte le impurità. Ma Khemaka confessa che sebbene non trovi nei Cinque Aggregati un sé o una qualche cosa che appartiene al sé, “io non sono un Arahant libero da tutte le impurità. Amici, in relazione ai Cinque Aggregati dell’Attaccamento ho la sensazione: ‘IO SONO’, ma io non vedo chiaramente: ‘Questa cosa è l’IO SONO’”.

Poi Khemaka spiega che quello che chiama ‘IO SONO’ non è né la materia, né la sensazione, né la percezione, né le formazioni mentali, né la coscienza, né qualcosa al di là (32) di essi. Ma ha la sensazione ‘IO SONO’ in relazione ai Cinque Aggregati, sebbene non .possa vedere chiaramente ‘Questo è l’IO SONO’ (37), Dice che è come l’odore di un fiore che non è né l’odore dei petali, né dei colori, né del polline, ma l’odore del fiore. Khemaka spiega poi che anche una persona che ha ottenuto il primo livello di realizzazione conserva ancora la sensazione dell”IO SONO’. Ma in seguito, progredendo, questa sensazione dell”IO SONO’ sparisce completamente.

Come ‘l’odore chimico di una stoffa lavata di fresco scompare dopo un certo tempo se chiusa in una scatola. Questa discussione fu così illuminante per tutti quei monaci che, alla fine di essa, dice il testo, divennero, incluso lo stesso Khemaka, Arahant liberi da tutte le impurità, sbarazzandosi dell’’IO SONO’.

Secondo l’insegnamento del Buddha è sbagliato sostenere l’opinione ‘Io non ho un sé’ (che è la teoria nichilista) come sostenere l’opinione ‘Io ho un sé’ (che è la teoria eternalista), perché entrambe sono dei vincoli che sorgono dalla falsa idea dell’’IO SONO’. La posizione corretta riguardo alla questione dell’Ānattā è di non sostenere alcuna opinione o punto di vista, ma di vedere le cose oggettivamente, come sono, senza proiezioni mentali, di vedere che quello che chiamiamo ‘IO’ o ‘essere’ è solo una combinazione di aggregati fisici e mentali che agiscono insieme in modo interdipendente, in un flusso di cambiamenti momentanei soggetti alla legge di causa ed effetto e che non c’è nulla di permanente, di eterno e immutabile nella totalità dell’esistenza. Qui naturalmente sorge una domanda: se non c’è un Ātman, un Sé, chi riceve gli effetti del Karma (azioni)? Nessuno meglio del Buddha stesso può rispondere a questa domanda. Quando un bhikkhu gli pose tale questione, il Buddha disse: “Io, bhikkhu, vi ho insegnato a vedere la condizionalità ovunque, in tutte le cose” (38).

L’insegnamento del Buddha sull’Ānattā o Non-Anima o Non-Sé non deve essere considerato come negativo o nichilista. Come il Nirvāna, esso è la Verità, la Realtà, e la Realtà non può essere negativa. É la falsa credenza in un Sé immaginario e inesistente che è negativa. L’insegnamento dell’Ānattā dissipa l’oscurità delle false credenze e produce la luce della saggezza. Non è negativo: come Asanga ha detto giustamente: “C’è il fatto che non c’è il Sé” (nairātmyāstita) (39).

NOTE

(1) ) Mhvg (Alutgama, 1922), p. 4 e ss.; M I (PTS), p. 167 e ss. (2) La dottrina del Paticca-samupadda è comunemente definita come la ‘Catena dei Dodici Anelli’ ed è spiegata nella pagina seguente (n.d.T.). (3) M HI (PTS), p. 63; S II (PTS), pp. 28, 95, etc. Per riportarlo in una forma più moderna: Quando A è, B è; apparendo A, appare B; quando A non è, B non è; cessando A, cessa B. (3bis) Il testo inglese porta “are conditioned” ed è stato tradotto alla lettera; ma era più esatta l’espressione “generate e condizionate” (n.d.T.).  

(4) Vism. (PTS), p. 517.
(5) Vedere sopra
(6) Lo spazio limitato di cui disponiamo non permette qui la discussione di questa dottrina molto importante. Uno studio critico e comparativo di questo soggetto si troverà in dettaglio in una futura opera dell’autore sulla filosofia buddhista.

7) Sārattha II (PTS), p. 77.
(8) Mh. Sūtralankāra, XVIII, 92.
(9) H. von Glasenapp, in un articolo “Vedanta and Buddhism” sul problema dell’Anattà, The Middle Way,Febbraio 1957, p. 154.
(10) Mrs. Rhys Davids e altri. Vedere il libro della Rhys Davids Gotama the Man, Sākya or Buddhist Origins, AManual of Buddhism, What was the Original Buddhism, etc.

11) MI (PTS), pp. 136-137.
(12) Citato in MA II (PTS), p. 112.
(13) La traduzione di F.L. Woodward della parola ‘Dhamma’ come ‘tutti gli stati composti’ è assolutamente errata (The Buddha’s Path of Virtue, Adyar, Madras, India, 1929, p. 69) ‘Tutti gli stati composti’ corrisponde solamente a samkhārā ma non a dhamma.

(14) Samkhārā nell’elenco dei cinque Aggregati significa ‘Formazioni mentali’ o ‘attività mentali’ che producono degli effetti karmici. Ma qui significa tutte le cose condizionate o composte includendo egualmente i Cinque Aggregati. Il termine samkhārā ha significati diversi nei diversi contesti. (15) Cfr. anche Sabbe samkhārā aniccā ‘Tutte le cose condizionate sono impermanenti’, Sabbe dhammā anattā ‘Tutti i dhammā sono senza il sé.’. M I (PTS), p. 228; S III pp. 132, 133. (16) (16) M I (PTS), p. 137.

(17) Ibid., p. 138. Riferendosi a questo passo, S. Radhakrishnan (Indian Philosophy, Vol. 1, London, 1940, p. 485, trad.it. To 1974), dice: “É la falsa idea che proclama la continuità perpetua del piccolo sé, che è rifiutata dal Buddha”. Non siamo d’accordo su questa puntualizzazione. Infatti, al contrario, qui il Buddha rifiuta l’Anima o l’Ātman universale. Come abbiamo appena visto nel passo precedente il Buddha non accetta alcun sé, grande o piccolo che sia. Dal suo punto di vista tutte le teorie dell’Ātman erano false, erano proiezioni mentali.
(18) H. von Glasenapp spiega questo punto chiaramente nel suo articolo “Vedanta and Buddhis” (The MiddleWay, febbraio, 1957).
(19) Il commento al Dhp. dice: Nātho’ti patitthā. “Nātho significa sostegno, (rifugio, aiuto, protezione)”. [Dhp A III (PTS) p. 148]. L’antico sannaya Singalese del Dhp parafrasa la parola Nātho con pihita vanneya ‘è un sostegno (rifugio, aiuto)’. (Dhammapada Purānasannaya, Colombo, 1926, p. 77). Se consideriamo la formanegativa di nātho è ancora confermato questo significato: Anātha non vuole dire ‘senza Signore’ ma significa ‘senza aiuto’, ‘senza sostegno”, ‘non protetto’, povero’. Anche il Dizionario pāli della PTS spiega la parola nātha con ‘protettore’, ‘rifugio’, ‘aiuto’, ma non con Signore. La traduzione della parola Lokanātha (s.v.) con ‘Salvatore del mondo’ che utilizza la popolare espressione cristiana, non è completamente corretta, perché il Buddha non è un salvatore. Questo epiteto in realtà significa: ‘rifugio del mondo’.
(20) D II (Colombo, 1929), p. 62.
(21) Vedere invece: Rhys Davids (traduzione del Digha nikāya p. 108): “Be ye lamps unto yourselves. Be ye a refuge to yourselves. Betake yourselves to no external refuge”. [Siate delle lampade per voi stessi, siate un rifugio per voi stessi. Non prendetevi un rifugio esterno” n.d.T.]

(22) Dīpa qui non significa’lampada’ ma significa precisamente ‘isola’. Il Commentario al Digha nikāya (DA, Colombo, p. 380) dice su dīpa: Mahāsamuddagatam dīpam viya attānam dīpam patittham katvā viharatha “Dimorate (vivete) facendo di voi stessi la vostra isola; un sostegno (un luogo per ristorarsi) come un’isola nel grande oceano”. Il Samsāra, la continuità dell’esistenza è sovente paragonato a un oceano (samsāra-sāgara); e quello che si cerca per salvarsi, quando si è sperduti nell’oceano, è un’isola e non una lampada. (23) D II (Colombo, 1929), pp. 61-62. Solo l’ultima frase è tradotta letteralmente; il resto della storia è riassunto brevemente secondo il Mahāparinibbāna-sutta.

(24) Ibid., p. 62. Per i Satipatthāna, vedere il cap. VII sulla Meditazione.
(25) Vinaya: Mhg. (Alutgama, 1929), pp. 21-22.
(26) In un’altra occasione il Buddha aveva detto a questo stesso Vacchagotta che il Tathāgata non aveva delle teorie perché aveva visto la natura delle cose (M I (PTS) p. 486). Anche in questo caso il Buddha non vuole associarsi ad alcun teorico.

(27) Sabbe dhammā anattā (sono esattamente le stesse parole della prima riga del Dhp XX, 7 di cui abbiamo già discusso). La traduzione che Woodward ha fatto di queste parole con “tutte le cose sono impermanenti” (Kindred Sayings IV, p, 282) è completamente falsa, probabilmente dovuta a una svista. Ma è un errore molto grave. Questa è, forse, una delle cause delle tante ed inutili discussioni in merito al silenzio del Buddha. La parola più importante in questo contesto: Anattā ‘senza sé’ è stata tradotta con ‘impermanente’. Le traduzioni inglesi dei testi pāli contengono errori, piccoli e grandi, di questo tipo — gli uni dovuti a una imperfetta conoscenza della lingua originale e gli altri a negligenze o sviste. Quale ne sia la causa, è utile dire qui, con tutta
la deferenza dovuta a questi grandi pionieri in questo genere di studi, che tali errori sono stati responsabili della gran massa di false idee sul Buddhismo, sorte in coloro che non possono accedere ai testi originali. É bene sapere pertanto che la Pali Text Society ha in corso un piano di pubblicazione di nuove traduzioni riviste di questi testi.

(28) Infatti, in un’altra occasione, evidentemente anteriore, quando il Buddha aveva spiegato un certo problema profondo e sottile — il problema di ciò che succede a un arahant dopo la morte — Vacchagotta disse:
“Venerabile Gotama, ora sono caduto nell’ignoranza, sono confuso: quella piccola parte di fede che avevo all’inizio della conversazione con il venerabile Gotama, ora anche quella se ne è andata via”. (M I (PTS) p. 487). Ecco perché il Buddha non gli ha voluto creare nuova confusione.
(29) S IV (PTS), pp. 400-401.
(30) Questa conoscenza del Buddha è definita: Indriyaparopariyattanāna (M I (PTS), p. 70; Vibh. (PTS), p. 340).
(31) A (Colombo, 1929), p. 216.

(32) Per esempio S IV (PTS); pp. 393-395; M I (PTS), p. 484.
(33) Per esempio vedere S III (PTS), pp. 257-263; IV, pp, 391 e ss.;’398 e ss.; 400; M I pp. 481 e ss.; 483 e ss.; 489 e ss.; A V p. 193.
(34) Infatti, dopo un po’ di tempo, Vacchagotta andò di nuovo a trovare il Buddha. Questa volta non pose alcuna domanda, contrariamente alla sua abitudine, ma disse: “È molto tempo che non ho un colloquio con il Venerabile Gotama. Sarebbe buona cosa se il Venerabile Gotama mi volesse istruire brevemente sul bene e sul male (kusalākusalam)”. Il Buddha rispose che glielo avrebbe esposto sia brevemente sia dettagliatamente e lo fece. Alla fine Vacchagotta divenne un discepolo del Buddha, comprese la Verità, ottenne il Nirvāna e i problemi sull’Ātman e le altre questioni non lo ossessionarono più. (M I (PTS) pp. 489 e ss.). (35) S II (PTS), p. 94. Alcuni pensano che Ālayavijnāna, ‘la Coscienza serbatoio’ (Tathāgatagarbha) del Buddhismo Mahāyāna sia una qualche sorta di Sé. Ma il Lahkāvatāra-sūtra dice chiaramente che non è un Ātman (Lanka, pp. 78-79).
(36) S HI (PTS), pp. 126 ss.

(37) Questo è quello che la maggior parte della gente dice in merito al sé anche oggi.

(38) M IH (PTS), p. 19; S III, p. 103
(39) Abhisamuc, p. 31.

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