Realtà e linguaggio

LA METAFORA NELLA PEDAGOGIA DEL BUDDHA

Richard Gombrich

«Monaci, due tipi di persone travisano il Tathāgata: chi espone un discorso il cui significato necessita di essere interpretato come se fosse esplicito, e chi espone un discorso il cui significato è esplicito come se necessitante di essere interpretato; questi due, o monaci, travisano il Tathāgata.»

(Anguttara Nikaya 2.24 Bālavagga)

Se quelli che normalmente consideriamo gli oggetti del mondo intorno a noi non sono davvero stabili, ma sono processi, tutti soggetti a cambiamenti lenti o veloci, la nostra interpretazione di ciò che i nostri sensi percepiscono non è mai perfettamente accurata. Il principale colpevole di ciò è il linguaggio, poiché diamo nomi a quello che percepiamo; è soprattutto la fissità di questi nomi a ingannarci. Quindi, se operiamo solo attraverso il linguaggio, che ci fornisce l’apparato concettuale, ci troveremo sempre in qualche misura distanti dalla verità. Il Buddha era riuscito a squarciare il velo del linguaggio e a confrontarsi con la realtà al di là delle parole, e quindi al di là dell’impermanenza e della sofferenza.

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La predicazione documentata nei sutta, i testi che contengono i sermoni e i discorsi del Buddha, ha principalmente la forma di quelli che in pali sono chiamati ‘pariyāya.’ Letteralmente la parola significa «percorso intorno» e quindi «percorso indiretto», ma si riferisce a un «modo di presentare le cose». La traduzione «circonlocuzione» non è adeguata, perché suggerisce verbosità o evasività. Pariyāya si riferisce alla metafora, alla parabola, a qualunque uso verbale non sia da intendersi letteralmente. Un testo esposto con «pariyāya» viene messo in contrapposizione con uno esposto senza, in altre parole con un testo che va inteso letteralmente. Nei canoni antichi, sono i testi dell’Abhidharma a essere «senza pariyāya», e a sostenere quindi di esporre in maniera letterale quanto il Buddha aveva voluto dire.

Che cosa significa per noi? Il primo compito di un interprete moderno come me è presentare nella nostra lingua il senso letterale di ciò che il Buddha ha inteso dire. É probabile che la soppressione dell’impiego figurato della lingua che pervade e ravviva i suoi discorsi li renda meno vivaci e interessanti; inoltre, è sempre discutibile in che misura ciò che è espresso con una metafora sia comunicabile dall’equivalente letterale, in particolare quando l’argomento è di natura religiosa. Naturalmente posso provare a introdurre metafore mie, ma, a meno che io sia molto attento a spiegare quel che sto facendo, c’è il rischio che distorca il messaggio, soprattutto perché il nostro mondo è assai lontano da quello dell’India antica. È meglio che mi attenga al compito di decodificare quello che il Buddha ha detto, riconoscendo quando lui parla in modo figurato, e magari anche comprendendo perché lo fa. Ma limitarsi a ignorare le metafore equivale a perdere una parte essenziale del significato.

L’ABILITÀ NELL’IMPIEGO DEI MEZZI

L’uso di metafore da parte del Buddha è connesso a quella che divenne nota come la sua «abilità nell’impiego dei mezzi». Nel Mahāyāna, l’abilità nell’impiego dei mezzi» (S:upayakausalya) divenne un termine tecnico. Esso non compare nei testi Pāli più antichi; ma ciò che designa si trova dappertutto. L’espressione si riferisce alla maestria del Buddha come comunicatore. Questa, a sua volta, è dimostrata dall’abilità del Buddha nell’adattare quanto dice ai suoi ascoltatori, ai loro pregiudizi, alle loro aspettative e capacità.

Note

1. Nell’editto di Babhra, l’iscrizione in cui l’imperatore Asoka esorta i suoi sudditi a imparare certi testi buddhisti ivi menzionati, egli chiama quei testi dhamma-paliyaya, ovvero pariyaya.

2. Quest’antica terminologia corrisponde in maniera abbastanza precisa alla successiva distinzione in sanscrito fra sūtra e sastra, sebbene tale coppia si riferisca a generi letterari.

Tratto da: R. Gombrich, Il pensiero del Buddha, Adelphi.

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