
Una prospettiva non settaria
«La forma è vuota, e la vacuità stessa è forma; il vuoto non differisce dalla forma, la forma non differisce dal vuoto»
(Sūtra del Cuore della Saggezza)
La teoria del vuoto (Śūnya) è uno degli elementi distintivi della filosofia di Gautama Buddha, il quale affermò espressamente che il suo insegnamento era connesso al vuoto (suññatappaṭisaṃyuttā, SN 20.7); Gautama si spinse perfino ad affermare che la sua stessa vita era prevalentemente improntata al vuoto – «suññatāvihārena bahulaṁ viharāmi» – (MN 121)
Sebbene la Śūnyavāda abbia ricevuto un enfasi maggiore nel sistema Mahāyāna, le sue origini sono rintracciabili già nei discorsi del Canone Pāli. Nel Suññaloka Sutta (SN 35.85) leggiamo:
«Ānanda, nella misura in cui esso è vuoto di un sé e di ciò che appartiene al sé, in questo senso il mondo è definito vuoto. L’occhio, Ānanda, è vuoto di un sé e di ciò che appartiene al sé; le forme sono vuote di sé e di ciò che appartiene al sé, la coscienza visiva è vuota di sé e di ciò che appartiene a sé; Il contatto visivo è vuoto di sé e di ciò che appartiene al sé; qualunque sensazione sorta sulla base del contatto visivo, piacevole, spiacevole, o neutra, è vuota di sé o di ciò che appartiene al sé.»
Ma in che senso la forma è definita vuota? Il sanscrito Śūnyatā, ‘vuoto’, anche tradotto con ‘vacuità’ (da Śūnya, ‘zero’), che può comparire sia come sostantivo che come aggettivo, indica l’assenza di qualcosa. Il merito all’origine di questo vocabolo, l’insegnante di meditazione scozzese Stephen Batchelor scrive:
«Il termine “zero”, fino al XV secolo era una parola spagnola, usata per pronunciare il cifrario arabo (che ci ha dato anche il “cifrario” inglese). Quando i musulmani di lingua araba si stabilirono in Spagna, portarono con sé un sistema aritmetico che includeva un simbolo per lo zero. Ciò si sarebbe rivelato indispensabile per costruire la matematica ora utilizzata in tutto, dalla fisica quantistica alla programmazione informatica. I musulmani avevano scoperto l’idea in India, il termine arabo cifra era la loro pronuncia del sanscrito shunya, che almeno dal IX secolo era stato usato in India per rappresentare la nozione matematica di zero. Shunya significa “vuoto” ed era il termine usato da Nagarjuna come chiave per comprendere ciò che insegnava il Buddha. Così shunya divenne ciphr, quindi ciphr divenne zero.»
(Versi dal Centro, pp. 52)
La prima parte di questa proposizione afferma che i corpi materiali sono vuoti o privi di sostanzialità, autonomia e permanenza, essendo enti mutevoli, composti, e nati grazie all’interazione di cause primarie e condizioni ambientali. In altre parole, sono vuoti di un sé sostanziale (che le scuole non buddhiste definiscono come un ente permanente, autonomo e sostanzialmente esistente) e per estensione, di ciò che appartiene ad un tale sé, che esiste solo come percezione errata.
Il vuoto caratterizza tutti i fenomeni interni ed esterni
Nella seconda parte della sentenza il sūtra afferma l’identità tra la natura del corpo e l’assenza di esistenza autonoma e permanente. La nozione di vuoto però non può sussistere senza che vi sia qualcosa (gli aggregati e tutti gli altri fenomeni elencati nel Sūtra) a cui tale nozione possa applicarsi. Ad esempio, non si può dire che il bicchiere è vuoto senza che via sia un qualunque bicchiere, reale o immaginario. Perciò, la vacuità è [l’essenza stessa della] forma.
La vacuità come spaziosità nella meditazione profonda
In secondo luogo, suññatā sta ad indicare il progressivo svuotamento della mente dalle percezioni caratteristico delle fasi avanzate del samādhi :
«Proprio come questa magione della madre di Migara è vuoto di elefanti, vacche, cavalli e giumente, vuoto di oro ed argento, vuoto di assembramenti di donne e uomini […] Allo stesso modo, Ānanda, un monaco, distogliendo l’attenzione dalla percezione del villaggio, senza dare attenzione alla percezione degli esseri umani, focalizza la propria attenzione in quell’univocità dipendente dalla percezione della foresta (l’immagine visualizzata di una foresta verde è qui usata come ogetto di meditazione) ; la sua mente diventa perciò zelante, fiduciosa, stabile e incline alla percezione della foresta. Ed egli realizza: ‘In questo stato non vi è stress dipendente dalla percezione del villaggio, né vi è stress dipendente dalla percezione delle genti; vi è solo una minima quantità di stress relativo a quell’univocità dipendente dalla percezione della foresta’.»
(Cula-suññata Sutta, MN 121)
Lo sviluppo di questa forma di raccoglimento meditativo, detto suññata-samādhi, è strumentale proprio alla realizzazione della natura vuota di esistenza autonoma e permanente dei fenomeni interni ed esterni. La liberazione mentale ottenuta tramite la meditazione yogica sul vuoto è detta suññāta-ceto-vimutti.
Per concludere questa dissertazione sul tema del vuoto, vorrei citare l’esortazione da parte del Buddha ad un suo discepolo a contemplare, in ogni situazione, questo mondo come vuoto ed effimero:
«Mogharaja, sii sempre consapevole, e considera questo mondo come vacuo; abbandonando l’errata visione del sé, la morte viene trascesa.»
(Sutta Nipata 5.16.)

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