La mente nel Buddhismo

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La mente nel Buddhismo


«Custodisca la persona accorta la mente-cuore, così difficile da vedere (comprendere n.d.r), guizzante, che si proietta su ciò che trova piacevole: il cuore ben custodito conduce alla felicità.»

Dhammapada, Citta Vagga, 36.

Definizione  di cognizione

Il termine pāli viññāṇa deriva dal verbo Vijānātī, vocabolo composto dal prefisso ‘Vi’, discernere o distinguere (lett. separare), e jānātī, conoscere; viññāṇa è la chiara cognizione, la coscienza della presenza di un dato oggetto entro il campo della facoltà sensoriale corrispondente, la primissima fase del processo mentale di percezione soggettiva. Per inciso, il vocabolo Jānātī deriva dalla radice vedica ‘jña’, cognato dell’italiano conoscere:

Conóscere (ant. cognóscere) v. tr. [lat. cognoscĕre, comp. di co– e (g)noscĕre «conoscere»] (io conósco, tu conósci, ecc.; pass. rem. conóbbi, conoscésti, ecc.; part. pass. conosciuto). – Nel significato più ampio e filosofico, apprendere e ritenere nella mente una nozione. Nell’uso ha però un più concreto valore semantico, e può indicare i varî gradi della conoscenza, dall’iniziale percezione dell’esistenza di una cosa alla cognizione piena del suo essere, dei suoi modi e qualità. Secondo il PTS Pali English Dictionary : ñāṇa from jānāti. See also jānana. *gené, as in Gr. γν ̈ω σις (cp. gnostic), γνώμη; Lat. (co)gnitio; Goth kunpi; Ogh. kunst; E. knowledge.

Nel Khajjnīya sutta, Il processo della cognizione è così definito:

«E perché è chiamata cognizione? ‘conosce chiaramente’ o monaci, perciò è chiamata cognizione. E cosa conosce? conosce l’acre, l’amaro, il piccante, il dolce, l’alcalino, l’acido, il salato e l’insipido. Riconosce o monaci, perciò è detta cognizione.»

Similmente, il termine ‘citta’ deriva da citi, conoscere. Anche ‘mano’, dalla radice man, ha lo stesso significato.

Tipi di cognizione ed origine del processo cognitivo

Nel Vibhaṅgasutta (SN 12. 1) è spiegato che vi sono sei modalità della cognizione: visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile e mentale:

«E cos’è, o monaci, la coscienza? Questi sei gruppi di coscienza – coscienza visiva, coscienza uditiva, coscienza olfattiva, coscienza gustativa, coscienza tattile, coscienza mentale. Ciò, o Monaci, è detta coscienza».

In altre parole, viññāṇa è il processo della cognizione fenomenica soggettiva attraverso le facoltà sensoriali (vista, udita, olfatto, gusto, tatto e pensiero), dal quale si sviluppa tutta la dinamica che conduce alla sofferenza esistenziale; questo processo è spiegato in maniera articolata nel Madhupiṇḍika sutta (MN 18):

«Dall’interazione fra la vista ed un oggetto visivo sorge la cognizione visiva; la concomitanza dei tre determina il contatto; il contatto determina la sensazione; ciò che viene sentito viene riconosciuto, e su ciò che è stato riconosciuto si rimugina mentalmente; ciò che viene rimuginato da adito alla proliferazione, e per via di ciò, l’individuo viene travolto dalla proliferazione concettuale nata dalla percezione di oggetti visivi passati, futuri o presenti».

Se la cognizione è condizionata dall’ignoranza della realtà, questa sarà inevitabilmente distorta, e darà quindi origine ad una percezione dualistica nella quale un individuo che percepisce se stesso come un’entità autonoma e permanente, percepirà altresì una serie di oggetti «là fuori», distinti da se stesso, con i quali egli si sta relazionando. Secondo il Mūlapariyāya sutta :

«Egli Percepisce quanto conosciuto come conosciuto, ed avendo percepito quanto conosciuto come conosciuto, immagina [se stesso]come ciò che ha conosciuto, immagina [se stesso] in ciò che ha conosciuto, immagina [se stesso in relazione] a ciò che ha conosciuto, immagina ciò che ha conosciuto come ‘mio’, e prova diletto in ciò che ha conosciuto. E per quale ragione? Perché egli non ha pienamente compreso, ciò io vi dico» .

D’altro canto, se lo stato fondamentale della mente è improntato alla saggezza, il soggetto percepirà se stesso come un’entità dinamica, soggetta al mutamento e in stretta relazione di interdipendenza con gli oggetti percepiti:

«Il monaco arahant, libero dai veleni, emancipato, il quale ha compiuto ciò che doveva essere compiuto, depositato il fardello, raggiunto il proprio obiettivo, totalmente distrutto il legame esistenziale, pienamente libero grazie alla perfetta conoscenza,  anche Egli riconosce l’elemento terra come terra, ed avendo riconosciuto l’elemento terra come terra, non immagina [se stesso] come l’elemento terra, non immagina [se stesso] nell’elemento terra, non immagina [se stesso] distinto dall’elemento terra, non immagina: ‘mia è le terra’, non gode dell’elemento terra. E per quale ragione? – Perché egli è libero dall’ignoranza, grazie alla distruzione dell’ignoranza.»

La natura interdipendente della cognizione

Questo stato di cose è la base fondamentale per la discriminazione dualistica fra il soggetto e gli oggetti, separazione dalla quale nasceranno le differenti modalità relazionali fra l’individuo ed il ‘mondo’: attrazione verso gli oggetti ritenuti gratificanti, avversione verso ciò che egli percepirà come dannoso o sgradevole, paura verso tutto ciò che è percepito come una minaccia per il proprio io eccetera. Nel Naḷakalāpī Sutta, (SN 12.67), viene spiegata la relazione di interdipendenza fra la cognizione soggettiva, gli oggetti sensibili ed i processi mentali alla base dell’esperienza del samsara:

«Proprio come, amico, due fasci di canne si sostengono l’uno con l’altro, allo stesso modo, nāmarū­pa è la base di viññāṇa, e viññāṇa è la base del nāmarū­pa. Nāmarū­pa è la base per le sedi sensoriali, le sedi sensoriali sono base per il contatto… ed in questo modo che tutta questa intera massa di sofferenza viene a manifestarsi.»

Lo stesso concetto è ribadito nel Mahānidānasutta (DN15):

«Se il viññāṇa non fosse ben stabilito nel nāmarūpa (mente e materia), forse che si sperimenterebbero ancora nascita, invecchiamento, morte, ed il sorgere della sofferenza? “No di certo Signore”.”Perciò, Ananda, questa è la causa,questa la base, questa è l’origine e la condizione del viññāṇa, ovvero il nāmarūpaṃ. Ed è in questo modo, o Ananda, che esistono la nascita, l’invecchiamento, la morte, il trapasso ed il ri-apparire; in questo modo esiste un viatico per la designazione (adhi­vacana), per la descrizione (nirutti), e la delineazione (paññatti); ed è in questo modo che esiste la sfera del discernimento (paññā) finalizzata al rendere manifesto questo stato dell’essere ed è in questo modo che il circolo vizioso [del samsara] continua a vorticare, ovvero : mente e materia fluiscono, assieme alla cognizione, sostenendosi l’un l’altro».

La cognizione come processo

Tuttavia bisogna tenere presente che in accordo agli insegnamenti del Buddhismo, l’idea che la cognizione trasmigri da un corpo all’altro di vita in vita era considerata una visione distorta particolarmente grave, come si evince da questo dialogo, contenuto nel Mahātaṇhāsaṅhaya Sutta (MN 38), fra il Buddha ed un monaco di nome Sati, convinto che fosse proprio la cognizione a trasmigrare immutabile da un’esistenza all’altra:

Così ho udito: Una volta soggiornava il Sublime presso Savatthi, nella selva del Vincitore, nel parco di Anathapindika. Ora in quel tempo, ad un monaco di nome Sati Kevattaputta era sorta questa perniciosa visione erronea:

«Così io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro (che essa).»

Venne ora alle orecchie di molti monaci che al monaco Sati Kevattaputta era sorta questa visione erronea: «Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).»

Così, quei monaci si recarono da lui e gli dissero: «È vero, o amico Sati, che in te è sorta tale erronea visione: ‘Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)’?»

«Proprio così, o amici, Io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa).»

Quindi, quei monaci, desiderosi di correggere il monaco Sati Kevattaputta da quella visione erronea, interrogarono, domandarono ed esaminarono così: «Non dire così, amico sati, non parlare così, Non distorcere ciò che ha detto il Sublime, non è bene distorcere ciò che ha detto il Sublime, il Sublime non può aver detto ciò. In molti modi, amico Sati, è stato detto e spiegato dal Sublime che la coscienza  è sorta in maniera interdipendente, che senza cause non può sorgere alcuna coscienza».

Ma nonostante che il monaco Sati Kevattaputta fosse stato interrogato, contro-interrogato ed esaminato da quei monaci, egli continuava ostinatamente a mantenere tale dannosa visione erronea:

«così, o amici, Io comprendo il Dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)».

Allora quei monaci, incapaci di correggere il Monaco sati Kevattaputta da tale dannosa visione erronea, si recarono la dove si trovava il Sublime, ed avvicinandosi al Sublime, gli resero omaggio e si sedettero di fianco a lui. E sedendogli accanto, quei monaci dissero al Sublime:

(I monaci ripetono al Buddha l’intera conversazione avuta con Sati, aggiungendo:).«Quindi, signore, non essendo riusciti a correggere il monaco Sati Kevattaputta da quella dannosa visione erronea, noi siamo qui venuti a vedere il Sublime.»

Quindi, Il Sublime si rivolse ad un certo monaco e gli disse: “monaco, vai dal monaco Sati Kevattaputta e digli a nome mio: Amico, il maestro ti vuole parlare. «Certo Signore», rispose quel monaco al Sublime, e si recò dove risiedeva il monaco Sati Kevattaputta; Ed avendolo raggiunto, disse lui: «Amico Sati, il maestro ti vuole parlare».

«Certo, amico», ed avendo assentito a quel monaco, si recò dove si trovava il Sublime, ed una volta raggiuntolo, gli rese omaggio e si sedette al suo fianco. E al monaco Sati Kevattaputta che gli sedeva accanto il Sublime disse: «È vero, come si dice, che in te, Sati è sorta una tale perniciosa visione distorta: ‘Così comprendo io il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)’?».

«Proprio così, signore, Io comprendo il dharma esposto dal Sublime, che è proprio questa coscienza a correre e girovagare nel samsara, nient’altro(che essa)».

«E cosa sarebbe o Sati, questa coscienza?».

«Signore, proprio quella che parla, prova sentimenti e sperimenta qua e là i risultati delle azioni benefiche e nocive».

«Da chi hai tu dunque sentito, o stolto, che io abbia esposto un simile dharma? Non ho forse io spiegato in molti modi la natura condizionata della coscienza: senza cause non può sorgere alcuna coscienza? Ma tu, o stolto, distorci quello che ho insegnato e scavi a te stesso la fossa, causando a te stesso un grave danno. Ciò ti sarà, o stolto, di grande danno, e sofferenza».

Quindi il Sublime si rivolse a quei monaci: «Cosa pensate, o monaci, forse che in questo monaco Sati Kevattaputta si sia acceso un qualche barlume di conoscenza circa questo Dharma e disciplina?».

«Come potrebbe essere ciò? No di certo, Signore».

«Per qualsiasi ragione, o monaci, abbia origine coscienza, proprio per quella, e solo per quella, essa viene a determinarsi. Mediante la vista e le forme viene a determinarsi coscienza visiva. Mediante l’udito e i suoni viene a determinarsi la coscienza uditiva. Mediante l’olfatto e gli odori viene a determinarsi la coscienza olfattiva. Mediante il gusto e i sapori viene determinarsi la coscienza gustativa. Mediante il tatto e i contatti, viene a determinarsi la coscienza tattile. Mediante il pensiero e le cose ha origine la coscienza mentale».

Un’affermazione dello stesso tenore è contenuta nel Bijja Sutta del Samyutta Nikaya:

«Se qualcuno dicesse, ‘descriverò il venire, l’andare, lo svanire, il sorgere, la crescita,  l’incremento, ed il proliferare della cognizione a prescindere dal corpo, dalle sensazioni, dalla percezione e dalle intenzioni’, ciò sarebbe impossibile».

Similmente, nel Milindapañha, Nāgasena spiega al re greco Menandro che in accordo al Dharma, la cognizione è un processo senza soluzione di continuità e non un oggetto trasmigrante da un corpo all’altro:

Il Re disse: «venerabile Nāgasena, dove non c’è trasmigrazione può esserci continuazione?» «Certo, Gran Re, dove non c’è trasmigrazione può esserci continuità».

«Ma venerabile Nāgasena, come può ciò che non trasmigra continuare? Fammi un esempio».

«Gran Re, è come se qualcuno accendesse una lampada ad olio tramite un’altra lampada: forse che quella luce è trasmigrata dalla prima lampada?»

«No di certo, Signore».

«Allo stesso modo, o Gran Re, non vi è trasmigrazione ma continuità ».

«Fammi un altro esempio».

«Gran Re, ricordi, quando eri piccolo, di aver appreso dei versetti dal tuo insegnante?»

«Certo, Signore».

«Ora, forse che quei versetti trasmigrarono dal tuo insegnante [verso di te]?»

«No di certo, Signore».

«Allo stesso modo, non vi è trasmigrazione ma continuità».

Pensiero, emozione e intenzione

«il pensiero precede i dhammā; essi sono guidati dal pensiero, prodotti dal pensiero; parlando o agendo con una mente corrotta, ne conseguirà la sofferenza, come la ruota segue lo zoccolo del bue.»

– Dhammapada 1.1.

Nella psicologia del Dharma presentata nei testi del Canone Pali vi sono svariati termini tecnici impiegati per designare la sfera mentale; fra questi, oltre a viññāṇa (cognizione), i più importanti sono mano (mente-pensiero), citta (‘cuore’) e cetanā (intenzione). La differenza fra questi quattro è sottile, e spesso vengono impiegati in maniera intercambiabile; ciò ha portato ad una certa confusione fra gli studiosi e i praticanti.

In generale, con viññāṇa si intende la primissima fase del processo cognitivo, mentre con mano la successiva elaborazione concettuale; mano infatti deriva dalla radice verbale ‘man’, pensare. Con mano si intende quindi l’elaborazione mentale dei dati sensoriali dei cinque sensi; da mano, nascono i dhamma, le idee. Il terzo termine, citta, spesso tradotto in italiano con ‘mente-cuore’ si riferisce alla reazione emotiva sorta in base al pensiero concettuale. Infine, con cetanā si intende l’ultima fase del processo mentale: la scelta: sulla base di quanto esperito attraverso le sei coscienze, la elaborazione mentale e la successiva reazione emozionale, l’individuo sceglie di agire in accordo ai propri desideri, sulla base di ciò che egli immagine essere lo scenario più vantaggioso per se stesso. Nel Nibbedhikasutta (AN 6.63), il Buddha ridefinisce il concetto di karma nei termini dell’intenzione o scelta:

«Monaci, Io dico che il Kamma è intenzione. Dopo aver ponderato, uno agisce tramite il corpo, la parola e la mente».

Nell’Assutavā Sutta  (SN 12:62), Il Buddha paragona la mente ad una scimmia che salta da un ramo all’altro in maniera molto rapida:

«Monaci, proprio come una scimmia, che in una foresta vagabondasse afferrandosi ad un ramo, e dopo averlo lasciato ne afferrasse un altro; dopo averlo lasciato ne afferrasse un altro ancora: allo stesso modo, ciò che è chiamato ‘cuore’, ‘mente’ o ‘cognizione’, dalla notte al giorno si manifesta in un certo modo e si dissolve in un altro».

In ultima analisi, questi quattro termini sono da intendere come sinonimi utilizzati per indicare fasi differenti di uno stesso processo, anziché come differenti nomi dello stesso fenomeno. A tal proposito, si noti il modo in cui, nel testo citato in apertura, i termini kamma – che per il Buddha era sinonimo di cetanā – e viññāṇa siano impiegati per indicare due aspetti differenti dello stesso processo:

«Perciò Ānanda, l’intenzione è il campo fertile, la cognizione il seme e la sete il fertilizzante.

Paṭhamabhava Sutta, AN 3.6

Bhavanga citta : la mente subconscia 

Bhavaṅga citta è la mente fondamento ( condizione) dell’ esistenza. È la coscienza di base che rimane nello stato naturale quando non attivata dagli stimoli sensoriali, nello stato di sonno o in meditazione profonda. Il bhavaṅga citta del sistema theravāda, presenta delle similitudini con l’ālayavijñāna degli Yogācāra. È l’aspetto passivo della coscienza che opera a livello subconscio e garantisce la continuità della stessa anche in assenza di stimoli sensoriali. Nel pensiero abhidhamico il bhavaṅga-citta è la corrente mentale di base che mantiene la continuità della vita quando non sono attivi processi cognitivi. L’Abhidhamma lo descrive come il flusso di coscienza derivato dal kamma di rinascita, che scorre nei momenti di quiete, sonno profondo e inattività sensoriale. Buddhaghosa nel Visuddhimagga lo presenta come uno stato silenzioso della mente, paragonabile a un’acqua calma interrotta solo quando sorge un processo cognitivo, e ne analizza le fasi di vibrazione e interruzione. La tradizione commentariale successiva ne approfondisce il ruolo come base della continuità psichica. Anuruddha, nell’Abhidhammattha-saṅgaha, sistematizza il concetto distinguendo la coscienza di rinascita, il flusso continuo e l’ultimo istante di vita, mostrando come il bhavaṅga colleghi i momenti mentali e permetta il passaggio karmico da una esistenza all’altra. Buddhaghosa equipara il bhavaṅga citta al pabhassara citta ( mente luminosa) citato nel primo capitolo dell’ Anguttara Nikāya (1.49- 1.52

La natura luminosa della cognizione e il non sé

In accordo al Buddha-Dharma, la cognizione è per sua natura intrinsecamente pura e luminosa, anche se temporaneamente oscurata da fenomeni transitori quali le emozioni perturbanti e l’attaccamento all’Io determinato dall’ignoranza della realtà. Ciò significa che per arrestare il circolo vizioso della sofferenza è necessario rendere la cognizione scevra da alcuna designazione concettuale riguardo un Io o Sé permanente e autonomo. Questo implica, per forza di cose, la cessazione della cognizione condizionata dall’ignoranza, la quale dovrà lasciare il posto ad una modalità cognitiva non designante un Io (anidassana), non limitata ad un Io (ananta) e luminosa (sabbatopabha) come spiegato nel Kevaṭṭasutta (DN 11).

Osservare la mente

Nel Mahāsatipaṭṭhāna sutta (I fondamenti della consapevolezza), viene spiegato come coltivare l’attenzione ai processi mentali ed emotivi (Cittānupassanā), al fine di comprenderne la vera natura. Questa pratica, assieme alla contemplazione della vera natura dei fenomeni (dhammānupassanā) costituisce il nucleo fondamentale della pratica del Dharma:

«E come, un monaco è consapevole delle mente nelle mente? Un monaco, quando nella mente vi è passione, è consapevole che nella mente c’è passione. Quando nella mente non vi è passione, è consapevole che nella mente non c’è passione. Quando nella mente vi è avversione, è consapevole che nella mente c’è avversione. Quando nella mente non vi è avversione, è consapevole che nella mente non c’è avversione. Quando nella mente vi è ignoranza, è consapevole che nella mente c’è delusione. Quando nella mente non vi è ignoranza, è consapevole che nella mente non c’è delusione.

‘Quando la mente è limitata, è consapevole che la mente è limitata. Quando la mente è agitata, è consapevole che la mente è agitata. Quando la mente è esaltata, è consapevole che la mente è esaltata. Quando la mente non è esaltata, è consapevole che la mente non è esaltata. Quando la mente è trascesa, è consapevole che la mente è trascesa. Quando la mente non è trascesa, è consapevole che la mente non è trascesa. Quando la mente è concentrata, è consapevole che la mente è concentrata. Quando la mente non è concentrata, è consapevole che la mente non è concentrata. Quando la mente è libera, è consapevole che la mente è libera. Quando la mente non è libera, è consapevole che la mente non è libera. in questo modo dimora contemplando la [natura della] mente-cuore nella mente cuore in riguardo a Sé stesso, o dimora contemplando [la natura]della mente nella mente in riguardo alla mente-cuore altrui, o dimora contemplando [la natura] della mente nella mente, in riguardo alla propria ed altrui mente; Oppure dimora contemplando il sorgere di uno stato della mente, ed il suo svanire, il sorgere e lo svanire della mente; La sua consapevolezza che “esiste la mente” viene mantenuta fino allo stato di più alta conoscenza e di piena attenzione. Egli rimane libero e nulla brama al mondo. Così un monaco rimane concentrato sulla mente in essa e su essa.»

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