Jhāna e Samādhi senza oggetto

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1. I jhāna con oggetto

ll termine Pāli Jhāna (‘enstasi’) deriva dal verbo Jhayi, ‘soffermarsi’, ‘dimorare’ o ‘focalizzare’. Jhāna è lo stato meditativo che si sviluppa focalizzando l’attenzione (sati) su un oggetto o immagine mentale (rūpa). Secondo Buddhaghosa, il termine deriverebbe dal causativo jhāpeti, ‘accendere’. L’immagine metaforica qui utilizzata è quella di una lente focale la cui funzione può essere sia quella di accendere un fuoco (jhāpeti), che di avere una visione più chiara e nitida dell’oggetto osservato. Il Jhāna è perciò uno stato di profondo raccoglimento. È interessante notare che dal pali Jhāna derivano anche il cinese Chan ed il giapponese Zen, da cui prendono il nome le due famose scuole buddhiste. Jhāna è l’esperienza della meditazione, non una tecnica di meditazione.
La meditazione Jhāna è composta di due momenti fondamentali: una prima fase nella quale l’attenzione è sostenuta per mezzo di un’oggetto (rūpa), denominata rūpajhāna, e una fase successiva, dove l’attenzione non necessita più dell’ausilio di un’oggetto, detta raccoglimento senza oggetto, arūpasamādhi. Il termine rūpa ha varie sfumature di significato: materia, sostanza, corpo, oggetto, forma, immagine eccetera; in questo contesto, con rūpa si intende un oggetto di meditazione, o per essere precisi, l’immagine mentale di tale oggetto (rūpasaññāna). Vi sono vari oggetti di meditazione: Il respiro, le parti del corpo, la camminata, gli elementi, le sensazioni, la mente e i fenomeni mentali (dharma); nell’ambito della meditazione buddhista, tutte queste forme di meditazione sono definite ‘oggetto’. Ogni oggetto possiede quattro caratteristiche:

1.Pathavī (terra), la qualità dell’inerzia o resistenza (pathiga);

2.āpo (acqua), la qualità della fluidità e della coesione;

3.tejo (fuoco), la qualità del calore;

4.vāyo (vento), la qualità della motilità o movimento.

Oltre a questi quattro elementi grossolani, vi sono due elementi sottili: l’elemento spazio (ākāsā) e l’elemento coscienza (viññana), centrali nei primi due momenti del samādhi senza oggetto. Tuttavia, non essendo composti dai quattro elementi materiali, essi non sono classificati come ‘oggetti’ ma come ‘sfere’ o ayatana. Per sviluppare il raccoglimento jhānico, bisogna innanzitutto abbandonare i cinque ostacoli: desiderio sensuale, avversione, torpore e pigrizia, agitazione e irrequietezza e dubbio. Per fare ciò, il praticante impiegherà gli antidoti specifici per ciascun ostacolo, che sono rispettivamente: contemplare gli svantaggi della sensualità e la sgradevolezza degli oggetti dei sensi; la meditazione di amorevole gentilezza; Il riflettere sulla morte e l’impermanenza, la meditazione camminata o in piedi; la contemplazione del respiro; approfondire gli aspetti su cui si nutrono dubbi con un istruttore o persona competente. Le pratiche per rimuovere gli impedimenti costituiscono il Retto Sforzo, il sesto aspetto del Nobile Ottuplice Sentiero e il terzo dei sette fattore del risveglio, il fattore del vigore (vīrya).

Il primo Jhāna

“𝘿𝙞𝙨𝙩𝙖𝙘𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙞 𝙙𝙚𝙨𝙞𝙙𝙚𝙧𝙞 𝙨𝙚𝙣𝙨𝙤𝙧𝙞𝙖𝙡𝙞, 𝙙𝙞𝙨𝙩𝙖𝙘𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙞 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙞 𝙣𝙤𝙘𝙞𝙫𝙞, 𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙪𝙣𝙜𝙚 𝙚 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙣𝙚𝙡 𝙥𝙧𝙞𝙢𝙤 𝙖𝙨𝙨𝙤𝙧𝙗𝙞𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤 𝙢𝙚𝙙𝙞𝙩𝙖𝙩𝙞𝙫𝙤 (𝙅𝙝𝙖̄𝙣𝙖), 𝙛𝙖𝙩𝙩𝙤 𝙙𝙞 𝙜𝙞𝙤𝙞𝙖 𝙚 𝙗𝙚𝙣𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙣𝙖𝙩𝙚 𝙙𝙖𝙡 𝙙𝙞𝙨𝙩𝙖𝙘𝙘𝙤 𝙚 𝙖𝙘𝙘𝙤𝙢𝙥𝙖𝙜𝙣𝙖𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙡 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙖𝙥𝙥𝙡𝙞𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙚 𝙙𝙖𝙡 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙨𝙤𝙨𝙩𝙚𝙣𝙪𝙩𝙤.”

Accantonati temporaneamente i cinque ostacoli, il praticante entra nel primo jhāna; in questa fase è necessario portare e riportare più e più volte l’attenzione all’oggetto, dato che la concentrazione non è ancora stabile; Il porre e riportare l’attenzione sono detti rispettivamente vitakka e vicāra, ‘pensiero applicato’ e ‘pensiero costante’. Tuttavia, il praticante sperimenta gioia e benessere fisico (pīti e sukha) grazie al fatto di esseri affrancato, seppur temporaneamente, dai pensieri malsani.

Il secondo Jhāna

“𝘾𝙤𝙣 𝙞𝙡 𝙙𝙞𝙨𝙨𝙤𝙡𝙫𝙚𝙧𝙨𝙞 𝙙𝙚𝙡 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙖𝙥𝙥𝙡𝙞𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙨𝙤𝙨𝙩𝙚𝙣𝙪𝙩𝙤, 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙪𝙣𝙜𝙚 𝙚 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙣𝙚𝙡 𝙨𝙚𝙘𝙤𝙣𝙙𝙤 𝙅𝙝𝙖̄𝙣𝙖 𝙘𝙝𝙚 𝙚̀ 𝙩𝙧𝙖𝙣𝙦𝙪𝙞𝙡𝙡𝙞𝙩𝙖̀ 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙞𝙤𝙧𝙚, 𝙪𝙣𝙞𝙫𝙤𝙘𝙞𝙩𝙖̀ 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙖𝙡𝙚, 𝙚 𝙜𝙞𝙤𝙞𝙖 𝙚 𝙗𝙚𝙣𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙣𝙖𝙩𝙚 𝙙𝙖𝙡 𝙨𝙖𝙢𝙖̄𝙙𝙝𝙞 𝙥𝙧𝙞𝙫𝙤 𝙙𝙞 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙖𝙥𝙥𝙡𝙞𝙘𝙖𝙩𝙤 𝙚 𝙥𝙚𝙣𝙨𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙨𝙤𝙨𝙩𝙚𝙣𝙪𝙩𝙤”.

Proseguendo nella meditazione, l’attenzione diverrà più stabile e la mente rimarrà naturalmente concentrata sull’oggetto, e questo per via del fatto che grazie all’esperienza di gioia e benessere sperimentate, la meditazione diverrà un’esperienza piacevole e attraente per la mente. La mente persegue il piacere e rifugge il dolore; la strategia della meditazione, per lo meno in questa fase, consiste nel generare uno stato piacevole alternativo a quello della gratificazione sensoriale, che diriga la mente verso il decondizionamento, ovvero, verso la libertà dal bisogno di ricercare costantemente la soddisfazione tramite gli oggetti esterni. In altre parole, ci emancipiamo dal bisogno di gratificare i sensi per mezzo della gioia interiore. Svaniranno così vitakka e vicāra, essendo ( essendo terminata la loro funzione), e allo stesso tempo si svilupperà la fiducia interiore (ajjhattaṃ sampasādana), la convinzione esperienziale che la meditazione è davvero efficace per emanciparsi dal condizionamento dei veleni interiori. La gioia e il benessere sperimentati in questa seconda fase nascono dall’unificazione della mente con le qualità neutre dell’oggetto di meditazione. La mente assume le sembianze di ciò che osserva: identificandosi con un pensiero negativo, come ad esempio la rabbia, essa diventerà una mente rabbiosa; se invece la mente si identifica con un oggetto virtuoso o neutro, assumerà le stesse caratteristiche virtuose o neutre.

Il terzo Jhāna

“𝘾𝙤𝙣 𝙡𝙤 𝙨𝙫𝙖𝙣𝙞𝙧𝙚 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙜𝙞𝙤𝙞𝙖, 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙞𝙣 𝙚𝙦𝙪𝙖𝙣𝙞𝙢𝙞𝙩𝙖̀, 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙖𝙥𝙚𝙫𝙤𝙡𝙚, 𝙚 𝙘𝙤𝙣 𝙪𝙣𝙖 𝙘𝙝𝙞𝙖𝙧𝙖 𝙘𝙤𝙢𝙥𝙧𝙚𝙣𝙨𝙞𝙤𝙣𝙚, 𝙜𝙤𝙙𝙚𝙣𝙙𝙤 𝙙𝙞 𝙗𝙚𝙣𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙣𝙚𝙡 𝙘𝙤𝙧𝙥𝙤, 𝙀𝙜𝙡𝙞 𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙪𝙣𝙜𝙚 𝙚 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙣𝙚𝙡 𝙩𝙚𝙧𝙯𝙤 𝙅𝙝𝙖̄𝙣𝙖, 𝙞𝙡 𝙦𝙪𝙖𝙡𝙚 𝙚̀ 𝙙𝙚𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩𝙤 𝙙𝙖𝙞 𝙣𝙤𝙗𝙞𝙡𝙞 (𝙖𝙧𝙞𝙮𝙖𝙨) 𝙘𝙤𝙢𝙚 ‘𝙄𝙡 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖𝙧𝙚 𝙞𝙣 𝙚𝙦𝙪𝙖𝙣𝙞𝙢𝙞𝙩𝙖̀, 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙖𝙥𝙚𝙫𝙤𝙡𝙚𝙯𝙯𝙖 𝙚 𝙗𝙚𝙖𝙩𝙞𝙩𝙪𝙙𝙞𝙣𝙚. “

In questa terza fase, il meditante riconosce la natura condizionante della gioia ed assume verso di essa un’atteggiamento di equanimità consapevole (upekkha-sati). In precedenza, avendo riconosciuto la natura condizionante degli impedimenti, il praticante aveva rivolto la sua attenzione all’oggetto di meditazione, e ciò aveva prodotto uno stato positivo di gioia e benessere; ora egli riconosce che anche gli stati mentali positivi sono per natura instabili, contingenti ed inaffidabili. Il benessere sperimentato in questa fase è legato cioè all’esperienza di agio fisico indotto dalla meditazione. In questo contesto, l’equanimità è la capacità di rimanere equilibrati, focalizzati al centro dell’esperienza meditativa, permettendo così alle esperienze positive e negative di fluire senza afferrale o respingerle.

Il quarto Jhāna

“𝘾𝙤𝙣 𝙡’𝙖𝙗𝙗𝙖𝙣𝙙𝙤𝙣𝙤 𝙙𝙞 𝙛𝙚𝙡𝙞𝙘𝙞𝙩𝙖̀ 𝙚 𝙨𝙤𝙛𝙛𝙚𝙧𝙚𝙣𝙯𝙖, 𝙚 𝙡𝙖 𝙥𝙧𝙚𝙘𝙚𝙙𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙨𝙘𝙤𝙢𝙥𝙖𝙧𝙨𝙖 𝙙𝙞 𝙜𝙞𝙤𝙞𝙖 𝙚 𝙩𝙧𝙞𝙨𝙩𝙚𝙯𝙯𝙖, 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙧𝙖𝙜𝙜𝙞𝙪𝙣𝙜𝙚 𝙚 𝙙𝙞𝙢𝙤𝙧𝙖 𝙣𝙚𝙡 𝙦𝙪𝙖𝙧𝙩𝙤 𝙅𝙝𝙖̄𝙣𝙖, 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙤 𝙙𝙖𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚 𝙚 𝙙𝙖𝙡𝙡𝙖 𝙛𝙚𝙡𝙞𝙘𝙞𝙩𝙖̀, 𝙡𝙖 𝙥𝙪𝙧𝙚𝙯𝙯𝙖 𝙙𝙞 𝙚𝙦𝙪𝙖𝙣𝙞𝙢𝙞𝙩𝙖̀ 𝙚 𝙘𝙤𝙣𝙨𝙖𝙥𝙚𝙫𝙤𝙡𝙚𝙯𝙯𝙖.”

La quarta fase della meditazione jhānica è fondamentalmente uno stato di equanimità dove le esperienze di felicità e dolore, di benessere e malessere, sono assenti, perlomeno finché egli permane in questo stato. Lungi quindi dall’essere uno stato di trance o incoscienza, il jhāna è un’esperienza di attenzione equanime totalmente raffinate (upekkhāsatipārisuddhi), un’esperienza, seppur mutevole, che va oltre gli stati di malessere e benessere (adukkhaṃasukhaṃ).

2. Arūpasamādhi: raccoglimento senza oggetto

La coltivazione dei Jhāna conduce all’esperienza del samādhi. Questo termine, spesso tradotto come ‘concentrazione’, deriva dalla radice verbale sam-a-dha, il tenere (dha) assieme (sam), e indica l’unificazione o convergenza della consapevolezza (sati) con l’oggetto di meditazione; Il samādhi è uno stato funzionale allo sviluppo della conoscenza:

“𝘾𝙤𝙣 𝙡𝙖 𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙘𝙤𝙨𝙞̀ 𝙘𝙤𝙣𝙘𝙚𝙣𝙩𝙧𝙖𝙩𝙖, 𝙥𝙪𝙧𝙞𝙛𝙞𝙘𝙖𝙩𝙖 𝙚 𝙘𝙝𝙞𝙖𝙧𝙖, 𝙨𝙚𝙣𝙯𝙖 𝙢𝙖𝙘𝙘𝙝𝙞𝙖, 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙖 𝙙𝙖 𝙞𝙢𝙥𝙪𝙧𝙞𝙩𝙖̀, 𝙖𝙜𝙞𝙡𝙚, 𝙢𝙖𝙡𝙡𝙚𝙖𝙗𝙞𝙡𝙚, 𝙨𝙖𝙡𝙙𝙖 𝙚 𝙞𝙢𝙥𝙚𝙧𝙩𝙪𝙧𝙗𝙖𝙗𝙞𝙡𝙚, 𝙚𝙜𝙡𝙞 𝙡𝙖 𝙙𝙞𝙧𝙞𝙜𝙚 𝙚 𝙡’𝙤𝙧𝙞𝙚𝙣𝙩𝙖 𝙫𝙚𝙧𝙨𝙤 𝙡𝙖 𝙘𝙤𝙣𝙤𝙨𝙘𝙚𝙣𝙯𝙖 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙖 𝙙𝙞𝙨𝙩𝙧𝙪𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙞 𝙫𝙚𝙡𝙚𝙣𝙞 𝙞𝙣𝙩𝙚𝙧𝙞𝙤𝙧𝙞; 𝙀𝙜𝙡𝙞 𝙘𝙤𝙢𝙥𝙧𝙚𝙣𝙙𝙚: ‘𝙌𝙪𝙚𝙨𝙩𝙤 𝙚̀ 𝙞𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚, 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙖 𝙚̀ 𝙡’𝙤𝙧𝙞𝙜𝙞𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚, 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙖 𝙚̀ 𝙡𝙖 𝙘𝙚𝙨𝙨𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚, 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙤 𝙚̀ 𝙞𝙡 𝙨𝙚𝙣𝙩𝙞𝙚𝙧𝙤 𝙘𝙝𝙚 𝙘𝙤𝙣𝙙𝙪𝙘𝙚 𝙖𝙡𝙡𝙖 𝙘𝙚𝙨𝙨𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙚𝙡 𝙙𝙤𝙡𝙤𝙧𝙚.”-𝙎𝙖𝙢𝙖𝙣̃𝙣̃𝙖𝙥𝙝𝙖𝙡𝙖 𝙎𝙪𝙩𝙩𝙖, 𝘿.𝙉. 2

Come abbiamo già detto, per sviluppare l’attenzione (sati), ci si dovrà innanzitutto focalizzarsi su un’oggetto di meditazione; una volta che l’attenzione sarà diventata stabile, l’oggetto diverrà superfluo e potrà davvero essere messo da parte. Perciò, entrando nel samādhi senza oggetto, il rūpa viene trasceso; il Jhānasutta (AN 9.35) illustra la fondamentale differenza fra l’esperienza degli stati meditativi con forma e quelli senza forma:

[Jhāna con oggetto] “Vi dico che la fine delle agitazioni mentali dipende dal primo jhāna”. In riferimento a cosa è stato detto? È il caso in cui un monaco, distaccato dalla sensualità e dagli stati malsani, entra e rimane nel primo jhāna, caratterizzato da gioia e benessere nati dal distacco, dal pensiero applicato e sostenuto. Egli considera qualsiasi fenomeno collegato alla 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮*, 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝘀𝗲𝗻𝘀𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲, 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗲𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲, 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗲 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗼𝘀𝗰𝗶𝗲𝗻𝘇𝗮 come incostante, stressante, una malattia, un cancro, una freccia, doloroso, un’afflizione, estraneo, una disintegrazione, vuoto, non sé. “

[Samādhi senza oggetto] “Vi dico che la fine delle agitazioni mentali dipende dalla dimensione dello spazio infinto”. In riferimento a cosa è stato detto? È il caso in cui un monaco, con il completo superamento delle percezioni dell’oggetto, con la scomparsa delle percezioni della resistenza, non prestando attenzione alle percezioni della diversità, [è conscio:] ‘Spazio infinito’, entra e rimane nella dimensione dell’infinità dello spazio. Considera qualsiasi fenomeno collegato alla 𝘀𝗲𝗻𝘀𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲, 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗲𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲, 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗲 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗼𝘀𝗰𝗶𝗲𝗻𝘇𝗮 [1] come incostante, stressante, una malattia, un cancro, una freccia, doloroso, un’afflizione, estraneo, una disintegrazione, vuoto, non sé.”

Trascesa la percezione dell’oggetto di meditazione si potrà entrare nel primo stato di samādhi senza oggetto detto ‘sfera dello spazio infinito’ o Ākāsānañ­cāyata­na.

1. La sfera dello spazio infinito

“Con il completo superamento di ogni percezione dell’oggetto, con l’abbandono della percezione di resistenza, distogliendo l’attenzione dalla varietà delle percezioni, sperimentando lo spazio infinito, egli accede e dimora nella sfera dello spazio infinito.”

Ākāsā (spazio), l’assenza di ostruzioni o limitazioni, è il quinto elemento, il quale diverrà manifesto nel momento in cui i quattro elementi grossolani si saranno dissolti. È un’esperienza di totale apertura e libertà, di spaziosità interiore illimitata (ananta).

2.La sfera della coscienza infinita

“Con il completo superamento della sfera dello spazio infinito, percependo la coscienza come infinita, entra e dimora nella sfera della coscienza infinita.”

Nella sfera della coscienza infinita, il praticante riconosce che la propria coscienza è libera dalle ostruzioni, della qualità dello spazio. Egli ha consapevolezza dell’assenza di qualunque oggetto nel campo della coscienza.

3.La sfera del non vi è alcunché

“Con il completo superamento della sfera della coscienza infinita, non essendoci alcunché, entra e dimora nella sfera dove non v’è alcunché.”

La terza fase del samādhi è detta ‘sfera del ‘non vi è alcunché’, Ākiñ­cañ­ñā­yatana, o anche animitto-samādhi, (s. senza immagine). Questo stato meditativo è caratterizzato dalla percezione dell’assenza di oggetti nel campo dell’attenzione, un’esperienza di vuoto, di libertà e apertura, un’esperienza di vuoto e di consapevolezza del vuoto allo stesso tempo.

4.La sfera della né percezione né assenza di percezione

“Con il completo superamento della sfera del non v’è alcunché, egli entra e dimora nella sfera della né percezione né assenza di percezione.”

Riconoscendo questo stato di cose, Il praticante entra in uno stato dove, sebbene non si percepisca alcun oggetto, vi è comunque la percezione dell’esperienza dell’assenza di oggetti. Questa è la quarta fase, detta ‘sfera della né percezione né assenza di percezione’, neva­saññā­nā­sañ­ñāyata­na. La sfera della né percezione né assenza di percezione è consapevolezza rivolta all’esperienza della vacuità di oggetti nella mente.

Nella seconda parte di questo articolo affronteremo il tema dello stato meditativo della cessazione di percezione e sensazione (saññāvedayitanirodha)

NOTE

1. Il commentario a questo verso chiarisce ulteriormente: “In the formless attainment there is utterly no form; with reference to this, form is not included” .

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