
La lingua del Buddha
Siddhārtha Gautama faceva parte di un clan tribale, i Sakya, insediatosi nei territori oggi compresi fra il nord dell’India ed il sud del Nepal (Terai). In base alle numerosissime citazioni*contenute nei testi canonici sulle dottrine del brahmanesimo e delle scuole eterodosse come il giainismo, è assai probabile che egli conoscesse la lingua dei veda; ma tuttavia è probabile che egli parlasse una qualche forma di pracrito diffusa in quell’epoca nel regno di Kosala; il pracrito è una sorta di dialetto, strettamente imparentato con il sanscrito e il pālibhāsā, il linguaggio (bhāsā) in cui sono tramandati i testi canonici (Pāli). Il termine pracrito (prakrit) deriva da prakṛta, ‘normale’ ‘naturale’, a significare la lingua parlata dalle persone comuni, a differenza del sanscrito, termine che deriva da saṃskṛta, ‘costruito’ ‘prodotto’. È importante ricordare che il territorio della Repubblica di Sakya era confinante con il regno di Kosala e che i Sakya di Kapilavatthu erano vassalli del re Pasenadi; nel Dhammacetya sutta (MN 89) è proprio Pasenadi a ricordare al Buddha che fra le cose che li accomunava vi era il fatto di essere entrambi Kosalesi, oltre che di stirpe guerriera.
Nel Vinaya Pitaka vi è un famoso dialogo fra Il Buddha e due monaci di origini bramine di nome Yamelu e Tekulā, circa la possibilità di standardizzare le parole del Maestro seguendo la metrica dei testi veda (chanda); l’intento dei due dotti monaci era quello di salvaguardare le parole del Buddha da possibili deformazioni dovute ad un uso disinvolto del linguaggio da parte di alcuni monaci poco edotti. Tuttavia, il Buddha rifiutò tale proposta, asserendo che ”Le parole del Buddha possono essere apprese nella propria lingua”. A tal proposito, nel Samantapadadika, Buddhaghosa scrivere che l’espressione ‘la propria lingua’ (sakāya niruttiyā) sia riferita alla lingua del Buddha medesimo, identificando quest’ultima con la lingua dell’altro grande regno vigente in quell’epoca nel nord dell’ India, il Magadha**. Secondo Buddhaghosa, il linguaggio originario (mulabhāsā) dei testi canonici raccolti nel Tipitaka corrisponderebbe alla lingua parlata nel Magadha nel IV secolo a.C.; di fatto, i tre grandi concili nei quali vennero raccolti gli insegnamenti del Buddha si svolsero nel Magadha; lo stesso Milinda, il figlio dell’imperatore Asoka della dinastia dei Mauriya*** e artefice della propagazione del Buddhismo a Ceylon ( 236 a.C. circa), era Magadhese. Mahinda trasmise ai suoi discepoli singalesi i testi canonici (Pāli) in magadhi, traducendo invece i commentari (attakatha) in singalese (sihalabhasa). Per più di 250 anni, Il Tipitaka in lingua magadhi venne trasmesso oralmente di generazione in generazione, fino a quando nel 34 d.C., a seguito di una carestia che decimò l’ordine monastico sull’isola, i monaci singalesi decisero di mettere per iscritto i testi a beneficio delle generazioni future. C’è il sospetto che Buddhaghosa abbia voluto collegare la predicazione del Buddha con i fasti dell’ impero Mauriya con l’obiettivo di creare un collante ideologico propedeutico alla costruzione dell’ideologia buddhista Theravāda in Sri Lanka. In seguito, lo stesso Buddhaghosa ( V secolo d.C.) , decise di ritradurre gli antichi commentari dal singalese nella lingua canonica (pālibhāsā).
Per la tradizione buddhista singalese, la “lingua Pāli”, ovvero la lingua del Canone, corrisponde al magadhi, anche se molti studiosi contemporanei nutrono seri dubbi a riguardo; W. Geigerz sostiene che in realtà si tratterebbe di un “linguaggio universale” frutto di un adattamento del magadhi, creato appositamente per le élite colte del subcontinente indiano; per Lamotte, “Sebbene i testi più antichi in Pāli, quelli del canone buddhista, siano stati conservati a Ceylon, nessuno si sognerebbe di ricercare la culla di questa lingua sull’isola. È certo che il Pāli abbia avuto origine nel subcontinente indiano, ma la sua casa natia non è stata ancora determinata con certezza. Sono state avanzate argomentazioni a favore del Magadha (Buddhaghosa, Windisch, Geiger), del Kalinga (Oldenberg), di Taxila (Grierson), di Vindhya (Konow), della regione di Ujjayini (Westergaard, Kuhn, Franke) o di Kausambi (Przyluski). La molteplicità delle ipotesi può essere spiegata dalla natura composita del Pāli, che gli consente di essere a sua volta confrontato con i dei dialetti locali più disparati.”
In merito all’origine del Pālibhāsā, Maurice O’Connell Walshe scrive:
“In senso stretto, il termine Pāli significa ‘testo’, e tuttavia, l’espressione Pālibhāsā, ‘il linguaggio dei testi’, venne intesa dai primi studiosi come indicante il nome della lingua stessa. Il suo impiego è di fatto limitato al buddhismo, in particolare alla scuola Theravāda. L’origine esatta del Pālibhāsā è oggetto di dibattito accademico. Non possiamo approfondire questo argomento in questa sede, ma possiamo affermare che l’equazione tradizionale con la lingua dell’antico regno del Magadha, e l’asserzione che il Pāli corrisponda precisamente con la lingua parlata dallo stesso Buddha, non è sostenibile. Allo stesso modo, sappiamo che la lingua parlata dal Buddha fosse molto probabilmente non molto diversa dal Pāli. Dal punto di vista non specialistico, possiamo pensare al Pāli come ad una forma di sanscrito semplificato. Il suo sviluppo, come nel caso di altri dialetti indiani antichi, può essere paragonato a quello dell’italiano antico, sviluppatosi dal Latino. Prendiamo ad esempio il termine ‘sette’, dove il Latino ‘septem’ è diventato ‘sette’ in italiano attraverso la semplificazione tramite assimilazione del morfema ‘pt’ in ‘tt’. L’equivalente sanscrito sapta diventa satta in Pāli, ed altre semplificazioni di questo genere sono rintracciabili in centinaia di termini. Anche la grammatica è stata sensibilmente semplificata, seppur non così tanto come quella italiana. Tuttavia, le due lingue sono così affini che è possibile tradurre interi passaggi scritturali dal sanscrito al Pāli semplicemente operando le necessarie trasposizioni meccaniche. (ad esempio : Mārga (sentiero) in sanscrito diventa Māgga in Pāli; Agni ( fuoco) diventa aggi in Pāli.”
* Vedasi, quale esempio, L’Aggañña Sutta, DN 27.
** “sammāsambuddhena vuttappakāro Māgadhikavohāro”; “La lingua del Magadha utilizzata dal Buddha Pienamente Risvegliato.”
*** L’impero Mauriya fu fondato da Chandragupta, nonno di Asoka, nel 325 a.C. , dopo aver conquistato i territori del regno di Magadha.

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